Dirigenti a processo, irregolarità diffuse, proroghe di affidamenti e uomini dei clan padroni dell’ospedale. Sono gli elementi inquietanti che emergono ora dalla relazione sull’azienda sanitaria locale Napoli 1, la più grande della Campania. La stessa che la ministra Luciana Lamorgese aveva deciso, nel dicembre 2020, di non sciogliere. Aveva respinto la richiesta della commissione prefettizia che ne chiedeva l’azzeramento, con una decisione che aveva soddisfatto Vincenzo De Luca, il presidente della regione che aveva attaccato duramente la prefetta di Napoli Carmela Pagano.

La relazione riservata

Nel luglio 2019, Pagano ha nominato tre commissari con l’obiettivo di verificare eventuali infiltrazioni criminali nell’Asl Napoli 1. Un mese prima un’operazione dei carabinieri, coordinata dalla procura di Napoli, dal procuratore Giovanni Melillo e dalla magistrata Ida Teresi, aveva portato in carcere affiliati e capi della più potente organizzazione criminale campana: l’alleanza di Secondigliano.

Era emerso il controllo dell’ospedale San Giovanni Bosco da parte del clan, diventato base sociale del gruppo criminale. I commissari hanno descritto le caratteristiche della cosiddetta “camorra propria” e hanno fatto riferimento allo strapotere dell’alleanza di Secondigliano che unisce tre famiglie: Contini, Mallardo e Licciardi.

Questo clan, come altri, ha fra i suoi interessi anche il settore sanitario e il controllo degli ospedali. Chiedono il pizzo alle aziende appaltatrici, impongono ditte vicine per la realizzazione dei lavori o per l’offerta dei servizi e fanno assumere uomini fidati per agire indisturbati nelle strutture.

Nella relazione si citano stralci dell’ordinanza di custodia cautelare dalla quale emerge il controllo da parte del clan dell’ospedale San Giovanni Bosco. «Il quadro descritto traccia una mappa desolante del controllo camorristico dell’ospedale pubblico, che va dall’utilizzo del medesimo come luogo di incontri mafiosi o di ricezione di pagamenti usurai ed estorsivi, al controllo delle visite mediche e degli interventi chirurgici, con la compiacenza o la sottomissione del personale, in violazione di qualsivoglia regola interna; dai favoritismi illeciti al clan per false perizie o falsi referti al controllo del clan sulle ditte esterne appaltatrici di servizi vari, primo dei quali quello di pulizia», si legge nella relazione.

Non è la prima volta, era già successo nel 2013 quando c’erano state decine di arresti, dopo i quali non era però cambiato niente. Da qui i commissari hanno iniziato il loro lavoro di verifica vagliando i profili dei dirigenti. «In relazione al personale dirigenziale su un totale di 261 dirigenti, 50 risultavano avere precedenti penali/di polizia», in pratica il 20 per cento.

La relazione si è soffermata sul profilo di 19 dirigenti con incarichi di primaria importanza, direttori amministrativi o delle unità operative complesse, coinvolti, a vario titolo, in inchieste per falsità ideologica, truffa, corruzione, turbativa d’asta, associazione a delinquere.

In alcuni casi le indagini si sono chiuse con l’archiviazione o l’assoluzione, mentre altre sono ancora in corso. La relazione continua analizzando i vari aspetti relativi alla gestione.

I reati di pulizia

Il primo riguarda il servizio di pulizia affidato a un’associazione temporanea di imprese dal 2002 fino all’ottobre 2019. La società capofila dell’Ati si chiama Esperia, ha subìto un’interdittiva antimafia nel 2005 poi ritirata qualche anno dopo. Un’altra interdittiva, che ha portato all’amministrazione straordinaria della spa, è arrivata nel 2018.

Su 345 dipendenti circa il 33 per cento ha carichi pendenti o di polizia. Sono stati analizzati i profili di 15 soggetti che hanno frequentazioni con uomini della camorra.

Ci sono lavoratori condannati per contrabbando di sigarette, evasione, ricettazione, tentata rapina, furto. Non solo. C’è la moglie del boss Giovanni Cesarano, elemento di vertice del clan Contini, il fratello di un affiliato al clan Mazzarella, un altro dipendente dell’azienda appaltatrice ha rimediato 27 condanne per contrabbando di sigarette; un altro perché trasportava un chilo di coca.

Sono tutti dipendenti dell’azienda che si è occupata per 17 anni della pulizia nell’intera Asl. I commissari hanno analizzato poi la vicenda relativa alla gestione del bar del San Giovanni Bosco, affidato a partire dall’anno 2003 a una famiglia legata al clan Contini.

Nel settembre 2019 la società è stata raggiunta da un’interdittiva antimafia, ma i gestori sono debitori con l’azienda sanitaria per mezzo milione di euro. In pratica non hanno mai pagato e già nel 2014 erano stati coinvolti in un’inchiesta giudiziaria.

Sono riusciti anche ad ottenere, nel 2016, la dilazione del debito con un interesse dello 0,20 per cento. Un paragrafo viene poi dedicato alle truffe assicurative, settore di enorme guadagno per i clan, dove vengono riportate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che elencano, ma sono coperti da omissis, i nomi dei medici a disposizione e collusi con l’organizzazione.

Irregolarità negli appalti

I commissari denunciano pratiche illegittime e molteplici irregolarità nel sistema degli appalti, a partire dagli affidamenti diretti fino all’erogazione di servizi da parte di società senza proroga.

Anche il patrimonio rilevante dell’Asl viene gestito in modo lacunoso con diverse criticità e problematiche censurabili. La relazione critica anche la gestione dei procedimenti disciplinari adottati dal direttore Ciro Verdoliva che arriva all’Asl nel febbraio 2019, fortemente voluto dal presidente Vincenzo De Luca. I commissari ricordano la vicenda giudiziaria che lo riguarda, come imputato per corruzione e favoreggiamento in uno dei filoni scaturiti dall’inchiesta Consip.

Verdoliva ha sempre ribadito la sua correttezza ed è certo di dimostrare la sua estraneità ai fatti. I commissari riconoscono a Verdoliva capacità e determinazione nella gestione dell’Asl. «Non ha però significativamente inciso sugli aspetti più incancreniti della gestione amministrativa», scrivono. Sugli appalti emerge «l’immagine di un’azienda ove le regole sono puntualmente disattese (…), di tale sistema hanno talora beneficiato, quantomeno dal punto di vista economico, società raggiunte poi da provvedimenti interdettivi antimafia», si legge nella relazione.

I prefetti scrivono di un «maquillage di facciata» effettuato sùbito dopo le retate delle forze dell’ordine. «L’attuale dirigenza non ha invertito la rotta, anzi parecchi provvedimenti recenti sono ancora connotati da gravi irregolarità», si legge.

La relazione, datata 23 gennaio 2020, firmata dal prefetto Santi Giuffè, Marco Serra e Maria Teresa Mingione, si conclude con la richiesta di scioglimento, bocciata dalla ministra Luciana Lamorgese nel dicembre 2020. Ha vinto il maquillage di facciata.

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