È partita la nuova sottoscrizione per finanziare il lavoro di inchiesta dei giornalisti freelance. Tutto è cominciato il 21 luglio 2020 quando una cinquantina di eroici abbonati “sulla fiducia” si sono riuniti su Zoom per giudicare nove progetti di inchiesta sui temi ambientali e scegliere quelli da proporre per il crowdfunding. A un anno e mezzo dal primo esperimento, che è stato un successo, ci rivolgiamo nuovamente a voi che leggete Domani per chiedere di sostenere il lavoro di approfondimento di alcuni giornalisti che hanno deciso di scommettere sul nostro giornale (e sui suoi lettori), come noi abbiamo deciso di scommettere sulla loro bravura. Le tre inchieste che vi proponiamo oggi sono più ambiziose rispetto a quelle passate: “Carcere, inferno quotidiano”, “Geografia dello sfruttamento dei lavoratori” e “La violenza nella chiesa italiana”. Per ogni euro versato dai lettori, Domani ne aggiunge un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo.


Il primo rumore che si sente la mattina è quello insopportabile delle chiavi. Grandi chiavi appese alle cinture dei secondini che attraversano i corridoi e aprono le celle una a una. Il risveglio carcerario è fatto di rumori metallici, porte blindate che si aprono e si chiudono, battitura delle sbarre per accertarsi che i detenuti non le stiano segando per evadere. Si alza poco dopo il brusio televisivo o radiofonico, telegiornali, talk show, voci che si fondono con quelle dei residenti nelle celle. Richiami, cognomi gridati, “buongiorno appuntà!”. Sono i rumori della galera, sempre gli stessi, pochi ma costanti e pervasivi.

Udito

«In carcere non c’è mai un vero silenzio: ci sarà sempre un generatore, un lamento, una televisione accesa che funge da anestetico. Quando entri fai caso a tutto in maniera ossessiva, ma dopo qualche tempo diventa solo rumore di fondo», racconta un ex detenuto. Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell'udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. La reazione emotiva ai suoni si attenua quando l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità.

Gusto

Sono le otto del mattino, il portavitto si avvicina con il suo carrello per distribuire la colazione. Al caffè sbiadito o al tè si aggiunge parecchio zucchero. Sul pane, spesso di bassa qualità, mal cotto e insapore, si spalma tutto ciò che si può per renderlo più saporito. Essendo uno dei pochi stimoli sensoriali che il detenuto può gestire in autonomia, il consumo di zucchero nelle celle è molto alto. «In una cella di due persone è facile che si faccia fuori un chilo di zucchero a settimana», racconta un altro detenuto. «Per quanto riguarda il corpo, si hanno due atteggiamenti estremi: c’è chi si lascia del tutto andare e chi invece si cura ossessivamente. Chi smette di mangiare e chi si butta sul cibo cercando consolazione». Quando l’alimentazione diventa uno strumento di compensazione psicologica non sono rare patologie come il diabete e l'ipertensione.

Vista

D’altronde il movimento fisico garantito si riduce ai passi che si possono fare “all’aria”, ovvero i giri intorno a cortili spesso claustrofobici a cui si ha diritto per qualche ora al mattino e al pomeriggio. Il detenuto esce dalla cella di 8 metri quadrati che deve condividere con qualcun altro, dato l’affollamento delle carceri italiane che in alcune regioni raggiunge il 134 per cento della capienza, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone.

Prima di uscire butta uno sguardo alla finestra per capire che tempo ci sia, se serva la giacca o basti il maglione. Ma la finestra non permette di vedere granché. Ci sono le sbarre, e oltre le sbarre una fitta grata metallica che chiude lo sguardo. Da qui la vertigine di cui molti ex detenuti parlano quando tornano a guardare fuori da finestre senza sbarre dopo la liberazione. In cella, oltre i fori di due centimetri, la vista è tagliata dalle alte mura di cemento che delimitano la struttura penitenziaria.

Il detenuto infila la giacca e attraversa il lungo corridoio illuminato artificialmente. Scende le scale. Raggiunta l’aria si guarda intorno e ciò che vede è ancora cemento. A terra, a destra, a sinistra. In alto il cielo con le sue nuvole e forse qualche uccello. «Nel carcere di Cremona avevano messo le grate su tutte le finestre. Era rimasta senza grata una finestra in corridoio. Ci fermavamo lì dopo l’aria per guardare fuori a turno. Sembrava un televisore. Dava su un paesaggio orripilante ma ci sembrava una grandissima cosa. La gente diceva che se non avesse avuto la grata in cella sarebbe stata mezza giornata a guardare dalla finestra».

C’è uno sguardo lungo e uno sguardo corto. Lo sguardo del prigioniero è forzatamente accorciato e mutilato, scriveva Adriano Sofri dopo lunghi anni di esperienza detentiva. Una delle conseguenze più comuni e immediate della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione. L’oscurità delle celle non aiuta. Chi riesce cerca di fare qualche esercizio per la vista, ma gli stimoli rimangono scarsi.

Olfatto

È ora di pranzo. Il detenuto cucina con il suo compagno di cella. Gli odori del cibo invadono la stanza impregnando le pareti, ma chi la abita li sente poco. Anche l’olfatto è regredito nel tempo. La galera è un luogo di odori grevi e compositi che ristagnano. Il ricambio d’aria è scarso, il cemento sigilla. Finito il pranzo la cella viene presto ripulita. L’alto livello di stress psicologico a cui i carcerati sono sottoposti genera spesso la necessità di esercitare un forte autocontrollo sulle poche attività su cui si ha libertà, tra cui la pulizia. Si fa largo uso di candeggina e detersivi per la sanificazione di quello spazio ristretto che ospita ogni funzione vitale e in cui molti detenuti passano più di venti ore al giorno. Gli odori chimici sono i più comuni e persistenti, si respirano per anni, fino a non sentirli più. Un detenuto racconta di essere passato da un carcere dove era permesso bruciare dell’incenso. Il profumo forte e penetrante era uno stimolo stupefacente, del tutto diverso dai soliti e ripetuti odori. Come quello della muffa che ricopre le pareti scrostate di strutture fatiscenti. In galera sono molto comuni le malattie respiratorie, aumentano i casi d’asma e si nota subito fra i reclusi un raffreddore costante dovuto al malfunzionamento del riscaldamento e alle infiltrazioni di umidità in cella.

Tatto

Che cosa si tocca nel tempo in cui si sconta la pena? Di certo il cemento e il metallo. Per il resto poco altro, la plastica delle posate con cui si mangia, se si è fortunati la carta di un libro. Pochi i contatti con altri corpi, forse qualche stretta di mano. Addirittura la propria nudità diventa evento raro, dal momento che la doccia si fa rigorosamente in mutande e gli spazi privati non esistono. Anche per la percezione del proprio corpo c’è un declino evidente. L’orto è una delle attività più ambite perché permette di entrare in contatto con odori e consistenze dimenticate. Non è un caso che fra i detenuti siano frequenti le patologie dermatologiche: irritazioni, pruriti, scabbia. Tre coimputati raccontano di essere stati presi contemporaneamente da un prurito incessante e al quale i medici non riuscivano a trovare una spiegazione. Tutti e tre sono guariti pochi giorni dopo la scarcerazione. «Mi fa pensare che non fosse un problema solo fisico, forse eravamo entrati nello stesso loop tutti e tre, eravamo isolati insieme da 40 giorni», ipotizza uno di loro.

Malattie del corpo e della mente si confondono. I disturbi depressivi e d’ansia agiscono sulla sensorialità, estremizzandola o spegnendola. Quando i sensi sono così violentemente compressi la mente cerca di compensare: si viene assaliti da allucinazioni visive, auditive, tattili, del gusto e dell’olfatto; ne risentono i ritmi del sonno e della veglia, diventa difficoltosa la digestione, il sistema nervoso si deteriora in maniera costante e le difese immunitarie calano, ancora una volta per mancanza di stimoli.

Ciò che i corpi dei detenuti ci raccontano è che il carcere è un luogo pensato per la loro gestione disciplinata in termini esclusivamente securitari, di isolamento e repressione. Questi corpi mangeranno qui, dormiranno qui, uno sopra l’altro, qui passeranno per andare all’aria, qui verranno guardati senza poter vedere.

Tutti gli aspetti qualitativi della vita corporale che vanno oltre la sopravvivenza biologica saltano. Quest’idea, inscritta nell’architettura delle galere, rende difficile mettere in atto cambiamenti, anche quando le direzioni ne hanno l’intenzione. Per alcuni corsi e laboratori, che sarebbero di estrema importanza per il recupero e lo stimolo della sensorialità, non ci sono gli spazi. Se ci sono è probabile che siano pochi e quindi già occupati.

Le pene corporali

La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali.

(continua)

 

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