Un documento di quindici pagine in risposta alle osservazioni del procuratore dell’Aia. «Il mandato d’arresto europeo conteneva incertezze, (...) quello libico una descrizione precisa dei fatti». Intanto Bengasi “attacca” la Corte
L’Italia si difende. E con la Corte penale internazionale che ha aperto un fascicolo sul caso Almasri sono scintille. In un documento di quindici pagine lo stato, accusato di essere responsabile della scarcerazione e del rimpatrio del torturatore libico, cerca di smontare le osservazioni avanzate dal procuratore dell’Aia.
«La Cpi – si legge nel documento – non può deferire la questione all'assemblea degli stati parte o, nel caso in cui il Consiglio di sicurezza abbia deferito la questione alla Corte, al Consiglio di sicurezza. (...) Le uniche parti in causa sono lo stato e la Cpi».
Ma non è tutto. Per l’Italia «il procuratore della Cpi si attribuisce impropriamente il ruolo dell'unico soggetto (Corte d'appello di Roma) che è autorizzato a pronunciarsi su misure restrittive della libertà basate su richieste di consegna o arresto dalla Cpi». Tradotto: la Cpi «non ha il compito di valutare se lo stato ha violato il suo obbligo di cooperazione; non ha il potere di interpretare le disposizioni nazionali».
Dopodiché nel documento si ribadisce la “corretta” gestione della vicenda. Insieme alla «buona fede» degli organi esecutivi statutari e in particolare del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che «non è stato messo in grado di completare la complessa revisione della documentazione trasmessa prima della mancata convalida dell'arresto».
Nella lunga documentazione l’Italia parla dunque del rilascio di Almasri come di un «malinteso». E se per il procuratore dell’Aia lo stato italiano «avrebbe giustificato la mancata consegna di Almasri sulla base di un concorrente mandato d’arresto libico», arriva la “smentita”. «Il governo italiano – si legge nel documento – non ha mai sostenuto che il ritorno di Almasri in Libia fosse una conseguenza legale ed esecutiva automatica della richiesta di estradizione della Libia. Invece, l'Italia ha rappresentato che la richiesta di estradizione concorrente costituiva un ulteriore elemento di complessità nell'esame della richiesta di cooperazione della Cpi».
Ciò anche per il fatto che il mandato di arresto proveniente dall’Aia avrebbe contenuto, secondo l’Italia, «diverse incertezze riguardo agli elementi chiave dei presunti crimini, come le date della loro perpetrazione, che il procuratore caratterizza come semplici errori tipografici, senza tuttavia riconoscere che questi elementi sono stati successivamente corretti, insieme ad altri elementi essenziali, inclusa la qualificazione giuridica dei presunti crimini». Al contrario per l’Italia «la richiesta libica conteneva anche una descrizione precisa dei fatti (e delle relative date) coperti dai procedimenti nazionali».
Certo è che nelle osservazioni dello scorso 30 aprile che l’Italia invia, a firma del sottosegretario Alfredo Mantovano, alla Cpi si legge che «nel caso in cui la richiesta concorrente provenga da uno Stato che non è parte dello Statuto della Cpi, il ministro della Giustizia italiano determina quale richiesta debba essere prioritaria qualora la Cpi non effettui alcun esame preliminare sull’ammissibilità del caso».
Poi le conclusioni: «L'Italia non ha compiuto alcuna incoerenza nella sua condotta. Almasri è stato rimpatriato in Libia non in esecuzione della richiesta di estradizione, ma in virtù di un ordine di espulsione emesso per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale legati alla pericolosità del soggetto (...) il rimpatrio in Libia era l'unica via d'azione legalmente e praticamente fattibile».
In Libia
Intanto anche il governo libico di Bengasi “attacca” la Cpi. In un documento inviato all’Aia, il premier non riconosciuto dalla comunità internazionale, Osama Hamad, afferma che la precedente «dichiarazione del governo di unità nazionale, con mandato scaduto, sull’accettazione della giurisdizione del tribunale penale internazionale manca di fondamento legale e giuridico valido perché costituisce una violazione esplicita del principio di separazione dei poteri e non è vincolante per lo stato libico perché la Libia non ha ratificato lo Statuto di Roma».
La lettera alla Cpi arriva tuttavia in un momento di crescente ambiguità istituzionale sul rapporto tra la Libia e la Corte dell'Aia. Due settimane fa, il ministero della Giustizia del governo di Tripoli aveva pubblicato – e rapidamente rimosso – un comunicato in cui si dichiarava il rifiuto formale di consegnare Osama Najim al Masri, ex alto responsabile del sistema carcerario libico accusato di dodici gravi crimini, tra cui omicidio, stupro e tortura.
Secondo la nota poi ritirata, la Corte penale internazionale non avrebbe fornito prove sufficienti e, in ogni caso, «nessun cittadino libico sarà consegnato a una giurisdizione straniera». Una posizione in apparente contraddizione con quanto dichiarato lo scorso maggio dal procuratore della Corte Karim Khan, secondo cui Tripoli aveva formalmente riconosciuto la competenza della Corte per i crimini commessi in Libia tra il 2011 e il 2027. A complicare la situazione l'arresto in Germania nei giorni scorsi di Khaled al Hisri, noto come Al Buti, figura di spicco della milizia Rada e considerato braccio destro di Almasri.
Il tribunale dei ministri
Sul caso Almasri è invece attesa la decisione del tribunale dei ministri nei confronti della premier Giorgia Meloni, del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e dei ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio. Il provvedimento delle tre giudici sui quattro indagati “eccellenti”, in base a quanto si apprende, verrà inoltrato al procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi a stretto giro.
I tempi si sarebbero allungati anche a seguito della richiesta, poi autorizzata parzialmente, di Giulia Bongiorno, legale della difesa, di visionare il fascicolo. La stessa richiesta è stata inoltrata al tribunale dei ministri da parte di Francesco Romeo, l’avvocato della parte offesa e cioè di una delle vittime di Almasri: il procuratore Lo Voi avrebbe dato parere favorevole per la seconda volta (la richiesta di Romeo è stata infatti reiterata), ma ancora non sarebbe arrivato alcun ok da parte delle tre giudici alla visione degli atti.
© Riproduzione riservata



