Dopo aver eliminato il Bayern e il Barcellona l’Inter sfida nella finale di Champions la squadra che ha rinunciato a essere una collezione di campioni. Ha affidato la svolta all’allenatore spagnolo che in Italia ha allenato la Roma, un uomo spavaldo, una faccia consumata dal sole e dalla vita, andato oltre il dolore di una figlia persa
Luis Enrique è spavaldo, ma non come lo era Josè Mourinho, no, in modo naturale. Ha una faccia consumata dal sole e dalla vita, una faccia da ciclista che ha sofferto, in conferenza stampa sembra che sia appena sceso dalla sua bici dopo aver scalato l’Alpe d’Huez. Lucho ha sofferto, tanto, troppo, come altri di cui non conoscete la storia, direbbe lui, senza nominare Xana – sua figlia, morta a dieci anni –, perché è arrivato in un punto di solitudine assoluta da dove può essere spavaldo, come forma difensiva.
L’ultima volta che ha vinto la Champions League, Xana c’era e correva sul campo dopo la finale. Ora vive in lui. E Lucho difende la convivenza. Per questo ha scelto d’essere spavaldo. Come Cyrano de Bergerac, dice le cose come stanno, tocca e difende il suo dolore, senza perdere la tenerezza. E questo l’ha reso unico. Capace di sopportare la grande eliminazione della sua Spagna in Qatar da parte del Marocco.
Non ha più i dubbi della sconfitta in campo, come non ha problemi negli elogi degli avversari. Lucho è nell’oltre. È andato oltre il dolore, e ora è disinibito. Ha misurato il vuoto. Congelato i ricordi. E, dopo Barcellona, dove è cresciuto come calciatore e si è consacrato come allenatore, ha trovato a Parigi un’altra dimensione, che si è cucito addosso. Ha creato una squadra corta a immagine e somiglianza, ha lasciato andare Kylian Mbappé senza fare drammi, anzi ha rilanciato, non creduto, sbeffeggiato, per poi aver ragione: il suo Paris Saint-Germain è diventato più forte, un paradosso. Come aveva detto.
Via dal circo
È il primo non circense, senza i grandi nomi – almeno il concetto di grandi nomi ai quali c’avevano abituato da Messi a Neymar fino a Mbappé – ed è quello che potrebbe davvero fare l’impresa, perché è il primo della razza sua a essere evoluto e non devoto a nessuno. Luis Enrique ha liberato il PSG dalla schiavitù cinematografica dell’attore protagonista senza il quale sembrava impossibile girare il film, la sindrome da Jean-Paul Belmondo, tra i fondatori del PSG.
Ha provato, provato fino a ottenere il suo PSG: normalizzato, semplice, flessibile, democratico e libero di perdere. Togliendo l’uomo forte, ha fatto cadere l’ossessione, e ora la squadra gioca facendo ruotare i tre-quattro davanti che si alternano non solo sulle fasce ma anche nell’alzarsi e sedersi in panchina. Applicando l’uguaglianza che non si poteva applicare quando c’era l’obbligo di stupire, l’attesa della giocata del grande campione e la dipendenza dagli uomini e non dalla squadra. Il grande difetto capitale del PSG.
Lucho è arrivato e ha capito. Ha provato, riprovato, poi un po’ ha tagliato (Kolo Muani e Marco Asensio) un po’ è stato fortunato che Mbappé volesse andare al Real Madrid e da quella mancanza ha trovato la forza, in quel vuoto ha piantato l’attacco che ha rispedito a casa il meglio della Premier League. Dal ridimensionamento ha fatto nascere i fiori che non nascevano dai diamanti. E, infine, è successo che tranne Khvicha Kvaratskhelia – arrivato a gennaio con uno scippo napoleonico – quelli che ruotano davanti siano tutti francesi: Ousmane Dembélé, Bradley Barcola, Désiré Doué, Ibrahim Mbaye, il grosso sono loro, poi ci sono Gonçalo Ramos e Kang-in Lee.
Il cuore francese
Ma il cuore è francese, non poco, per una squadra considerata resto del mondo anche dai francesi. Alla fine Lucho ha messo il pallone al centro del progetto e non il brand, il campione, tanto che sono in finale di Champions League e hanno molte possibilità di vittoria. Anche se l’Inter e Simone Inzaghi sembrano fatti per rovinare le squadre belle, come accaduto al Barcellona, perché sanno creare le crepe e infilarci gli uomini giusti, quando sembra che tutto sia finito. Ma Luis Enrique non è Hans Flick, non gioca con la difesa minigonna a centrocampo. La fluidità del gioco del PSG è avvolgente e la lezione subita con la Spagna ha portato Lucho a una maggiore apertura per le verticalizzazioni, abbassando il piacere per l’orizzontalità che dominava le sue squadre, senza perdere l’abitudine al possesso.
La pressione rimane alta e non si perde mai la compattezza, e se la si perde c’è Gigio Donnarumma, passato in cinque mesi da peso a portatore di pesi. L’evoluzione del PSG da gennaio a oggi è evidente, perché riflette dell’avvicinamento con il carattere di Lucho, man mano che si giocava la fase a eliminazione diretta della Champions League aumentava la sicurezza nell’essere una squadra spavalda.
Tutto combaciava. Molto si deve a Kvara tornato a essere un calciatore selvaggio all’interno della costellazione disegnata da Luis Enrique dove gode della libertà che fu spallettiana, alternandosi da una fascia all’altra, dribblando senza freni e giocando un calcio da strada, apparentemente una contraddizione se si pensa all’ossessività del primo Luis Enrique, e questo vale anche per Dembélé che è nella sua migliore stagione, spinto oltre sé stesso dall’audacia dell’allenatore.
Un gioco di posizione con molto vento dove non mancano le richieste di tornare a coprire. È come se avesse aperto le finestre dicendo che tutti potevano essere protagonisti, senza ombre, senza gerarchie da caserma, se si guarda a come Fabián Ruiz si muove o come Achraf Hakimi è tornato a muoversi con una virilità calcistica che sembrava aver perduto: si capisce il grande lavoro prima mentale e caratteriale fatto da Luis Enrique. Ha dato ai giocatori del PSG la possibilità di tornare a mangiarsi il campo senza rimorsi né calcoli dovuti alla fama o all’epica, rigenerando la squadra, regalando la possibilità a tutti di movimento, dribbling e scrittura della partita.
Oltre il compiacimento
Ovvio, è un gioco sottilissimo che sottende regole diverse, non più legate al singolo giocatore ma al singolo gesto che porta a svincolarsi, divertendosi e segnando. Lucho è un filo di ferro psicologico che si piega per insegnare o ridonare libertà ai suoi calciatori, è arrivato alla flessibilità attraverso una rapidissima evoluzione calcistica che ha annodato all’involuzione della sua felicità.
Ha tagliato l’inutile, buttato il compiacimento aprendo alla possibilità di far divertire il giovane calciatore, creando una ragnatela di piccoli estetismi e rapidità che prima le sue squadre non avevano. Ha barattato la macchinosità dei passaggi e la sicurezza del possesso per l’affondo sulle fasce e l’audacia dei dribblomaniaci. E ora ride. E può andare incontro alla finale con una nuova soddisfazione, un nuovo linguaggio e una squadra che è tantissimo sua.
Uno specchio nel quale contarsi le rughe, le sconfitte, le ombre, gli errori, dove vedere cambiare la luce e perdere il narcisismo. Luis Enrique è rimasto legato al principio, cambiando il mondo per applicarlo e realizzarlo. È passato dalla monotonia del sublime alla semplicità del sublime.
In poche mosse, ma per arrivarci doveva fare il viaggio. Ha trovato l’equilibrio a Parigi. Il brasiliano Tim, calciatore degli anni Trenta e allenatore degli anni Cinquanta diceva: «il calcio è una coperta corta: ti copri i piedi e si scopre la testa, e se ti copri la testa si scoprono i piedi». Per dire quanto è difficile trovare l’equilibrio.
Nel caso di Lucho bisognava abbassare i passaggi e aumentare gli affondi. Facile, come smettere di fumare, se non si fuma.
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