Aggiornamento 9 maggio 2025: la Corte d’appello di Bari non ha convalidato il trattenimento del richiedente asilo di origine algerina perché, richiamando la decisione della Corte d’appello di Roma, la domanda di protezione internazionale non può essere considerata strumentale. Scrive la Corte: tali considerazioni «fanno ritenere che non sussistano i presupposti legittimanti la convalida del trattenimento disposto dal Questore di Bari». Dopo la decisione dei giudici, l’uomo sarà liberato. 

C’è un nuovo schema adottato dal governo per far funzionare i centri per migranti in Albania: la regola è l’opacità, che impedisce anche agli avvocati di avere informazioni sui propri assistiti, e a questa si aggiungono i trattenimenti a catena.

La struttura di Gjadër per il Viminale è ora considerata l’undicesimo centro per il rimpatrio italiano, trattato come se non si trovasse in uno stato estero, per di più fuori dall’Unione europea. Una linea confermata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi al vertice Med5 a Napoli: «Questa trafila di spostamenti succede anche nei passaggi dai Cpr e dai luoghi di imbarco per le persone che sono trattenute nei Cpr italiani, che vanno da Gradisca d’Isonzo, al confine con la Slovenia, a Palermo», aveva detto.

Dalla loro riapertura, dopo la trasformazione in centro per il rimpatrio, la struttura si sta svuotando: la Corte di appello di Roma ha già disposto il trasferimento in Italia per oltre una decina di persone. Lunedì l’ultimo caso, quando i giudici di secondo grado di Roma non hanno convalidato il trattenimento di un uomo di origini algerine che vive in Italia da trent’anni e ha due figli, cittadini italiani. L’uomo, che ha presentato una richiesta di protezione internazionale nei centri albanesi, doveva essere portato immediatamente in Italia e tenuto a Gjadër solo per adempimenti oggettivi, e quindi per organizzare il viaggio di ritorno. 

E, invece, il suo avvocato, Gennaro Santoro, non ha più avuto notizie formali da parte della questura né della prefettura. Nessuna notifica di un trasferimento né di un nuovo trattenimento.

È però venuto a conoscenza di un’audizione davanti alla Commissione territoriale, che è stata organizzata in fretta e furia prima del rientro in Italia. I tempi standard per essere sentiti dalla Commissione in Italia variano da un anno a un anno e mezzo, mentre per chi è in Albania i tempi sono record, così come i rigetti. «Come nelle carceri, quando si ordina la liberazione, ci vuole tempo per le questioni logistiche, ma non si possono svolgere attività delicate come un’audizione che, se fosse avvenuta in Italia, sarebbe stata in presenza dell’avvocato», spiega Santoro.

Solo martedì in serata, dopo più di 24 ore, è riuscito a sentire il suo assistito, che lo ha chiamato dal telefono di un altro trattenuto nel Cpr di Bari. «Una chiamata di fortuna», la definisce il difensore.

Difesa negata

Davanti alla Commissione l’uomo ha raccontato di avere figli in Italia. Un mediatore dell’ente gestore Medihospes ha quindi chiamato l’avvocato chiedendo la documentazione alla base delle affermazioni del richiedente. È così che il difensore ha scoperto dell’audizione, a tre ore dal decreto motivato della Corte d’appello. Una pratica che per Santoro è «illegittima», perché l’avvocato di fiducia non è stato avvertito: in Italia, come detto, avrebbe potuto partecipare, presentare una memoria e garantire la difesa al suo assistito

Per questo, il legale ha inviato un reclamo al Garante dei diritti delle persone private della libertà rinnovando, tra le altre cose, l’invito alla Commissione a svolgere una nuova audizione con la presenza del difensore. 

E ha richiesto un intervento urgente da parte del Cpt, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Lo stesso che aveva denunciato in un rapporto la cattiva gestione dei Cpr italiani, riconoscendo maltrattamenti, uso eccessivo della forza da parte del personale di polizia, abuso di psicofarmaci. Lo stesso a cui la deputata Rachele Scarpa e l’eurodeputata Cecilia Strada, del Partito democratico, hanno inviato una segnalazione perché – hanno avvertito – la vita e l’incolumità delle persone chiuse a Gjadër sono a rischio. 

«Dalle scarne notizie ricevute», ha scritto Santoro al Cpt in giornata, il suo assistito «è stato poi condotto in Italia con un traghetto partito alle ore 18 di ieri. Da allora né lo scrivente né i familiari hanno più ricevuto notizie».

Già nella memoria presentata alla Corte d’appello Santoro aveva segnalato la violazione del diritto di difesa per chi si trova recluso in Albania, data dall’«oggettiva distanza del difensore e il suo assistito» e dalle «ricadute concrete ed effettive» sull’esercizio del diritto alla difesa «sotto almeno due profili», scrive l’avvocato: «La partecipazione del difensore all’udienza e il diritto a comunicare con il proprio assistito».

Su quest’ultimo punto, segnala Santoro, «nulla viene specificato in merito al diritto alla comunicazione con l’esterno del cittadino straniero trattenuto». Non è chiaro se potrà usare il proprio cellulare, se potrà accedere a internet o se potrà usare la videocamera per fare collegamenti audiovisivi.  

Nella pratica, però, il telefono viene sequestrato, internet non viene fornito, e non c’è «possibilità di contattare il suo difensore e i suoi familiari nei modi e nei tempi che lo stesso ritiene opportuni». Le modalità sono decise dall’ente gestore, e quindi da chi è alle dirette dipendenze dell’istituzione che ha disposto la detenzione amministrativa.

Le decisioni della corte d’appello

La richiesta di asilo presentata dall’uomo in Albania ha modificato il suo status giuridico e, così come accaduto per altre persone, ha portato la Corte d’appello di Roma a non convalidare il trattenimento. Presso il centro di Gjadër, scrivono i giudici, non possono essere trattenuti richiedenti asilo diversi dal richiedente asilo proveniente da paesi sicuri e salvato in acque internazionali dalle autorità italiane – così come era stato inizialmente previsto dall’intesa – né da chi è destinatario di un provvedimento di espulsione ed è rimpatriabile. 

È l’ennesima decisione con cui la Corte ripete che il perimetro dell’operatività dei centri in Albania è ben preciso e chiunque non rientri nei gruppi individuati dal protocollo e dal successivo decreto ha diritto a essere riportato sul territorio italiano.

Ora però gli avvocati segnalano una questione preoccupante, che sembra essere diventata prassi. L’autorità amministrativa, invece di disporre il rientro in Italia e la liberazione immediata, sembra applicare dei trattenimenti a catena. E, quindi, se i giudici decidono che una persona non può stare in Albania, questa viene reclusa in Italia. In mezzo ci sono continui trasferimenti da una parte all’altra dell’Adriatico e i relativi costi, per le persone trattenute e per le casse dello stato.  

«Un’altra prassi estremamente problematica», denunciano le parlamentari del Pd Scarpa e Strada, che vede i richiedenti asilo ricondotti in Italia e nuovamente trattenuti «senza avere contatti con gli avvocati di fiducia e i familiari».

La Corte d’appello in questo caso ha fatto un passo in più, segnala Santoro, rispondendo all’amministrazione: «Non sussiste la strumentalità della domanda di protezione internazionale», perché «il trattenuto vive in Italia da trent’anni ed è padre di due minori di tenera età». Parallelamente, l’avvocato ha avviato un procedimento civile per il risarcimento del danno per le modalità del trasferimento dal Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli, al Cpr di Gjadër «con lesione di diritti fondamentali». 

«Il governo italiano – concludono Scarpa e Strada – continua a gettare una gravissima coltre di opacità sull’intera operazione Albania e sui Cpr italiani: lo fa per coprire le evidenti falle di un sistema non solo illogico e disfunzionale, ma anche e soprattutto profondamente lesivo dei più basilari diritti umani».

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