Era il 2017 quando, impartendo la benedizione urbi et orbi dalla loggia vaticana, papa Francesco ricordava «l’Ucraina, afflitta da un sanguinoso conflitto». Sviatoslav Shevchuk, l’arcivescovo maggiore della chiesa greco-cattolica del paese staccatosi dalla Russia nel 1990, allora impegnato a spegnere i fuochi di guerra nel Donbass, annuì: «Il papa capisce che l’attuale Ucraina è vittima di un’aggressione ingiusta, ed è solidale con noi in modo chiaramente visibile».

Oggi lo stesso Shevchuk lancia un appello alle organizzazioni internazionali per fermare l’invasione russa iniziata lo scorso 24 febbraio. Il timore che la chiesa di Kiev ritorni nelle catacombe come ai tempi della persecuzione sovietica formalizzata dallo pseudo-sinodo di Lviv (Leopoli) nel 1946, è tanto grande quanto la resistenza del suo popolo.

Per il momento, l’impegno della Santa sede in loco è nelle mani di Konrad Krajewski e Michael Czerny, i due cardinali inviati per conto del papa nel cuore della crisi. Il primo ha incontrato a Leopoli Shevchuk con l’obiettivo di fornire assistenza ai bisognosi ucraini. Czerny, invece, come prefetto ad interim del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, si trova tra i centri di accoglienza ungheresi dove è in corso la più grande emergenza umanitaria della storia europea dal Dopoguerra.

Eppure, malgrado la cosiddetta «diplomazia umanitaria» della Santa sede, fatica a concretizzarsi il tavolo negoziale più volte richiesto anche dal governo italiano. Basti dare uno sguardo allo scarno comunicato pubblicato da L’Osservatore Romano sulla telefonata fra il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, e il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov: gli appelli della Santa sede, rimasti sostanzialmente invariati, non aggiungono nulla rispetto a quanto chiede a gran voce la chiesa greco-cattolica ucraina.

La grande incompiuta

Occorre andare a Kiev, dove nel Novecento l’arcivescovo maggiore Husar spostò la sede dell’arcivescovado dall’originaria Leopoli, per capire lo stallo in cui si trova la più grande delle 22 chiese sui iuris (cioè con proprio rito, ma fedeli a Roma).

Ancora oggi, lo status giuridico di quella greco-cattolica ucraina è ingabbiato nelle concessioni risalenti all’Unione sovietica guidata da Michail Gorbaciov. Se Shevchuk stesso lamenta da anni la difficoltà d’inserimento della chiesa nello stato ucraino, appare anche sospeso il cammino preannunciato anni fa da papa Francesco.

Dai tempi della dichiarazione di fedeltà a Roma del metropolita Isidoro nel Concilio di Firenze (1439) all’Unione di Brest (1596), con la quale il metropolita ruteno Michael Rohoza passò con alcuni vescovi alla chiesa cattolica romana, il legame coi greco-cattolici in Ucraina è sopravvissuto alle diaspore e ai martirî per secoli: ne è simbolo la basilica romana di Santa Sofia, costruita su impulso dell’arcivescovo Josip Sipyi, incarcerato per quasi un ventennio dal governo sovietico.

Oggi che la guerra rievoca nuovi scenari catacombali, sembra ancor più lontano un riconoscimento di un patriarca per i greco-cattolici ucraini, chiesto in passato dall’arcivescovo Shevchuk nel solco della richiesta formalizzata dal metropolita Slipyi a papa Paolo VI nel 1963. Ma la guerra ha anche ampliato il divario con Mosca, che non potrebbe tollerare la coesistenza di un patriarcato a poca distanza dal suo. Oggi, in alternativa alla chiesa russa, c’è un fronte ortodosso compatto nella condanna dell’invasione innescata da Putin, dai primati Epifanij e Onufriy al patriarca di Istanbul, Bartolomeo I, la chiesa ortodossa ha chiesto di evitare uno scontro fratricida.

La guerra santa

Se la Santa sede invita a più riprese alla prudenza verbale, il 16esimo patriarca di Mosca, al secolo noto con il nome di Vladimir Michajlovič Gundjaev, non solo non si è speso per condannare gli scontri, ma nel suo ultimo sermone domenicale ha dato alla guerra imbracciata da Putin il peso di un metafisico scontro di civiltà: da una parte un occidente che considera conquiste le rivendicazioni della comunità Lgbt e del pensiero unico, dall’altra un mondo euroasiatico che ritiene democratica la reversibilità di un modello di valori in controtendenza al common sense di civiltà, seppure a spese di un isolazionismo tale da esser declamato dai pulpiti come eroico.

Come ha scritto Francesco Cundari su Linkiesta: «Le parole di Kirill sul gay pride sono l’altra faccia della strategia del leader russo: dimostrare che il modello della democrazia liberale non coincide con il progresso, ma solo con l’egemonia occidentale, che come tale va respinta, in nome di altri e opposti valori». Non è una retorica nuova, visto che «Mosca, città senza gay pride» era l’omaggio in versi nella canzone del rapper Timati, assoldato nella propaganda pop voluta da Putin qualche anno fa.

Evidentemente, per il patriarca russo i cortei caleidoscopici soverchiano il pallore dei corpi morti sulle strade sbriciolate di Dnipro, o le danze dell’occidente sono più «depravate» delle bombe a grappolo che colpiscono i civili. Si tratta dello stesso patriarca che il 3 marzo parlava di cooperazione ricevendo nel monastero di San Daniele a Mosca il nunzio apostolico presso la Federazione russa, l’arcivescovo Giovanni d’Aniello, ed elogiava «la posizione moderata (…) e la prudenza della Santa sede».

Perfino il ricordo dell’incontro con papa Francesco nel 2016 a La Havana, a cui seguì la firma di un documento d’intesa in vista del ristabilimento dell’unità tra cattolici e ortodossi, oggi viene recepito con un certo imbarazzo per la scomoda posizione vaticana. Intanto, uno dei fautori dell’intesa di Cuba, il metropolita Hilarion (Alfeyev), direttore del dipartimento delle relazioni ecclesiastiche esterne del patriarcato di Mosca, è stato ufficialmente sospeso dalla facoltà di Teologia dell’Università di Friburgo, dove è titolare di una cattedra, per la mancata condanna dell’aggressione da parte russa.

Prudenti come serpenti

In Vaticano c’è chi considera ormai sfumato l’incontro tra Kirill e Francesco, previsto per la prossima estate, e continua a serpeggiare il malcontento per i silenzi del papa, troppo prudenti da apparire renitenti. Se non manca chi chiede al pontefice di condannare esplicitamente la Russia con lo stesso fervore utilizzato nella descrizione dei campi libici come «lager», scemano gli appelli a gesti profetici, come quello compiuto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, prendendo parte alla quadragesima nella basilica greco-cattolica di Santa Sofia a Roma.

L’ultimo appello porta la firma di José Manuel Vidal, direttore del famoso portale Religion Digital: «Il tempo delle parole è passato. È tempo di azioni e gesti, che parlano più delle parole e mentono meno. Lasci il Vaticano, Papa Francesco. Lo faccia ora. Oggi, meglio di domani. Ci sono vite in pericolo, che non possono aspettare. Ogni minuto conta, perché ogni minuto arriva su ali di dolore, pianti, urla di bambini, lacrime amare e morte violenta».

Ma il Vaticano non è il Fanar né tantomeno il Cremlino, e nella chiesa di papa Francesco la prudenza spera di superare cortine di ferro e bambù. È, per esempio, apparso cautissimo il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, che a TV2000 ha dichiarato: «C’è la disponibilità di iniziative sul piano diplomatico. Ci sono già vari tentativi che si stanno svolgendo. Noi siamo disponibili se ritenuto che la nostra presenza e azione può aiutare. Fermare le armi, ma soprattutto evitare un’escalation, e la prima escalation è quella verbale: perché quando si comincia a usare certe parole e certe espressioni, queste non fanno anche accendere gli animi» ha detto. In principio era la parola, esordisce il vangelo di Giovanni. Solo che spesso fra le mura leonine contano le dichiarazioni congiunte.

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