Il visto di Novak Djokovic è stato annullato dal ministro dell’immigrazione Alex Hawke il 14 gennaio, ma la vicenda non è ancora giunta all’epilogo: gli avvocati del campione serbo hanno fatto ricorso e l’espulsione dall’Australia è stata sospesa dal giudice che gli concesse il visto qualche giorno fa.

Il tennista è stato posto in stato di fermo in attesa di una nuova decisione del tribunale, non è remota la possibilità che Djokovic possa essere inserito nel tabellone degli Autralian Open sub iudice.

Il “mito” dell’uomo solo contro il sistema nella Serbia di Djokovic non solo raggiunge quindi nuovi apici. Quasi tutto appare finito ieri e pronto a ricominciare domani nei Balcani, dove la voluttà dell’essere “contro” procede di reincarnazione in reincarnazione, ultima delle quali è la percezione di una malattia che qui fa ridere proprio perché fa piangere l’occidente.

Le prime avvisaglie che la percezione del Covid nei Balcani sia nettamente diversa arrivano in Croazia, dove la polizia che gira sul treno che porta a Karlovac, poco distante dal confine con la Bosnia, chiede bruscamente, a chi ce l’ha, di togliere la mascherina dal volto per il riconoscimento: procedura corretta, ma dal tono del pubblico ufficiale, non protetto egli stesso, erompe un misto di collera e denigrazione per quel pezzo di stoffa e il mondo che rappresenta.

«We are in Croatia, no Italy!», sentenzia la guardia mentre sfoglia il passaporto. Gli fanno eco i passeggeri, anche anziani, che chiudono il finestrino che si era aperto nel tentativo di far entrare un po’ d’aria, che però si porta dietro il freddo e accidenti si rischia una polmonite, quindi chiudono scocciati: sbam! Il vagone deborda di folla e il modo in cui si indossano le mascherine, obbligatorie, sono un manifesto ideologico.

Si impara in fretta che sui treni che corrono lungo i Balcani che l’unica speranza per arieggiare i vagoni è riposta nei fumatori che se ne fregano dei divieti ma non vogliono prendere una multa.
Bisogna individuarli prima di salire, preferibilmente non giovanissimi. Ma il mondo parallelo, il mondo anti Covid e No-vax realizzato, inizia al confine con la Serbia. Si tratta di una condizione così forte, così pervasiva, che prima o poi si viene colti dal dubbio: o sono pazzi loro o siamo pazzi noi.

Ti dicono: «Vedi morti per strada? Vedi la peste?».

«No, scene manzoniane non se ne vedono».

«Ecco, vedi? Siete voi paranoici e schiavi delle multinazionali americane».

Vivere l’alienazione

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Per chi arriva dal bombardamento mediatico quotidiano italiano e non solo, entrare bruscamente dentro una realtà che non riconosce la gravità della malattia, e di conseguenza la prevenzione, porta rapidamente a vivere una alienazione semi totale: se si ha paura del Covid, e prima o poi questa paura diventa un senso di colpa perché è difficile fare qualsiasi cosa, anche mangiare perché il freddo picchia duro e i bei dehors italiani sono solo una chimera.

Difficile fare amicizia, difficile lavorare, prendere un bus, difficile tutto: alla fine si cede e si entra dentro il fatalismo, fase antecedente al riduzionismo. È il nostro mondo, le dinamiche sociali sono le stesse: ma al contrario.

I talk show della sera a novembre, quando c’era il primo apice della curva dei contagi, il secondo ancora più duro è in corso in questi giorni, non erano nemmeno lontanamente paragonabili ai nostri odierni.
Per chi invece due mesi fa aveva, e ha voglia oggi, di uscire e fare un salto nel mondo che fu fino al 2020, non c’era allora e c’è oggi che l’imbarazzo della scelta: i locali pieni di folla, i gruppi di amici, gli abbracci, i baci, tutte scene che impressionano perché scomparse dal panorama non solo del reale ma anche del possibile in Italia, qui sono normalità.

Darsi il gomito è ridicolo, non darsi la mano è da zotici, e così via. Il green pass sul telefono o su carta viene controllato, quasi sempre, con una fugace occhiata, anche alla frontiera. Il capodanno è stato un tripudio di folla e il vicesindaco di Belgrado Goran Vesic si è detto orgoglioso che la sua città fosse «la capitale d’Europa».

Non ha completamente ragione: la Serbia, soprattutto Belgrado, sta costruendo un nuovo tipo di turismo di massa, quello nel passato, nella perduta normalità che attrae turisti da tutto il mondo, non solo dall’Europa. Tutto è quasi come era all’inizio del 2020, si entra in Serbia come si sale su una giostra eccitante e pericolosa.

Una parte del tutto

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Le farmacie, soprattutto nei luoghi rurali hanno personale che ostentatamente non indossa mascherine e quando gliele chiedi li vedi scavare sotto al bancone, là sotto da qualche parte ci sono.

Il “Blocco 70” di Belgrado, mitico e incredibile mercato cinese fatto da cinesi, si trova nella periferia della capitale serba: qui la situazione è una sineddoche, una parte per il tutto; ci sono loro, i cinesi che hanno i banchi e vivono come se avessero un commissario del Partito comunista cinese a un metro, a testa: anzi direttamente dentro la loro testa.

E poi ci sono tutti gli altri, i clienti, i curiosi, i locali che vivono nei giganteschi palazzi simbolo del brutalismo socialista, che genuinamente paiono disinteressati. È una dimensione estetica sconcertante, marziana.

Vivere diventa molto complesso perché si è dentro un mondo che ha regole diverse, in cui quello strano, quello vagamente pericoloso sei tu: perché indossare la mascherina quando entri in un luogo pubblico, e soprattutto tenerla sul volto, è un simbolo divisivo e se incontri quello che ha bevuto troppa rakia, un brandy a base di frutta, potrebbe essere un problema.

L’alienazione trova il suo apice quando parli di vaccini, perché ti ritrovi a giustificare, imbarazzato, la scelta pro vax: «Sai, il lavoro...». Vaccinati sono gli anziani e coloro che lavorano con i turisti occidentali, che magari ne arriva qualcuno che crede nel Covid e tutto il resto, quindi bisogna farlo contento. Al momento circa il 50 per cento della popolazione ha un ciclo vaccinale completo, percentuale tra le più basse d’Europa.

Il Covid è un’influenza

Le ragioni per non vaccinarsi sono note: complotto, non sicuri, il Covid è una influenza come un’altra. Ma quello che sorprende è la trasversalità sociale di queste opinioni. A novembre in Serbia c’erano circa seimila contagi al giorno, con un rapporto tra test e positivi incardinato intorno al venticinque per cento. Ieri sono stati quasi quattordicimila: in questo lasso di tempo la curva ha fatto una “U” e il Covid, variante Omicron, sta riprendendo probabilmente chi era già passato attraverso Delta.

Due mesi fa il governo ha imposto delle ridicole limitazioni alla socialità da consumo, giuste per non bloccare nulla e poter dire che qualcosa si è fatto. La variante Delta ha fatto il giro della popolazione e la curva è scesa. Poi è arrivata Omicron e la curva è di nuovo schizzata in alto, verticale. Ma non è un problema e ti dicono: «Omicron non è pericoloso per i polmoni».

Il dottor Zoran Radovanovic, già direttore dell’Istituto di epidemiologia della Università di Belgrado, ha dichiarato al New York Times: «I dati ufficiali riportano 13mila morti, ma probabilmente sono circa 50mila, in uno stato che conta sette milioni di persone». Se fosse così sarebbe il triplo del rapporto tra popolazione e deceduti presente in Italia.

Ora non è dato sapere quale influenza abbia la vicenda Djokovic, anche se il governo tenta di salvare il salvabile rimbrottando il campione di tennis quando emergono le prove del suo sostanziale menefreghismo da contagiato che se ne andava in giro per incontri pubblici. «La Serbia è Novak, Novak è la Serbia», ha scandito solo pochi giorni fa il padre del tennista più forte del mondo: probabilmente il comportamento di Djokovic è solo una dose booster a un sentimento egemone.

Ma il campione serbo da tempo ha smesso di essere esclusivamente uno sportivo di cui vantarsi e può ambire a una simpatia “ideologica” radicatissima, soprattutto laddove l’identità serba reca ferite ancora sanguinanti dopo decenni, secoli. A Foča, città della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dove il tempo pare appena uscito dal tunnel di violenza selvaggia degli anni Novanta, Novak Djokovic campeggia su un enorme murales in compagnia di Petar Bojović, eroe di guerra di fine Ottocento e inizio Novecento che prese parte alle guerre serbo ottomane, al primo e al secondo conflitto mondiale.

Il murales, si compone anche di un terzo riquadro raffigurante un monastero ortodosso nonché una gigantesca bandiera serba.
Cosa c’entri Djokovic con le guerre serbo ottomane è un enigma, ma qui dove il fiume Drina conserva nel suo lento fluire i suoi fantasmi sanguinari, tra cui il famigerato Ratko Mladic che a Foča  vanta uno dei murales più grandi di tutti i Balcani, puntualmente cancellato e ridipinto,  Djokovic è il nuovo eroe.

«Djokovic difende l’identità serba», mi dice un passante a cui chiedo lumi di quell’accostamento pittorico tra un baffuto feldmaresciallo e un tennista. «E cosa c’entra l'identità serba col Covid?», domando. «Il Covid è una invenzione che non esiste e lui ci difende». Fine della discussione.

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