C’è un legame profondo ma invisibile che lega molte situazioni di violenza al denaro. O meglio, alla negazione del denaro. Controllare ossessivamente le spese della compagna, impedirle di possedere un conto corrente, indebitarsi a suo nome, vietarle di lavorare o studiare. Sono tutti esempi di violenza economica, definita dall’European Institute for Gender Equality (Eige) come l’insieme degli «atti di controllo del comportamento di una persona in termini di utilizzo e distribuzione di denaro, nonché la minaccia costante di negarle risorse economiche». In passato era catalogata come una forma di abuso emotivo o psicologico, oggi invece è riconosciuta come un tipo distinto di violenza, ma profondamente connesso a quella fisica, psicologica e sessuale.

Non è semplice misurare la diffusione della violenza economica. In primo luogo, perché non esiste una definizione condivisa di questo fenomeno nei vari ordinamenti statali. Come riporta l’Eige, a livello globale 1,4 miliardi di donne vivono in paesi che non riconoscono la violenza economica nei loro sistemi legali o non forniscono protezione giuridica alle vittime. Di conseguenza, è difficile raccogliere dati uniformi, perché non ci sono sistemi di raccolta standardizzati. A questi elementi si aggiunge il fatto che non è facilmente riconoscibile in primo luogo dalle vittime.

Eppure, è una violenza diffusa in modo capillare. Secondo il rapporto “Ciò che è mio è tuo. Fare i conti con la violenza economica” realizzato da We World in collaborazione con Ipsos (il sondaggio è stato svolto nel 2023 su 1.200 persone in Italia), il 49 per cento delle donne intervistate ha dichiarato di aver subito almeno una volta nella vita un episodio di violenza economica. E il dato aumenta al 67 per cento tra le donne separate o divorziate. Una su dieci ha detto che il partner le ha impedito di lavorare e il 28 per cento tra le separate o divorziate ha subito decisioni finanziarie prese dall’ex compagno senza essere stata consultata.

Non poter disporre di soldi propri ha ricadute negative dal punto di vista finanziario, ma aumenta anche la difficoltà nel separarsi dal partner violento: se non si ha denaro, non si può andare via. Da uno studio condotto nel 2020 negli Stati Uniti è emerso che il 73 per cento delle vittime di violenza economica intervistate è rimasto con l’aggressore a causa di preoccupazioni finanziarie proprie o legate ai figli. Lo stesso discorso vale per la dote o la “lobola” (un’usanza tipica dell’Africa meridionale secondo cui lo sposo paga con bestiame o contanti la famiglia della sposa prima del matrimonio) perché spesso viene chiesto alla donna di restituire la somma pagata, ma nella maggior parte dei casi, dato che la vittima non dispone di queste risorse, è costretta a rimanere nel contesto violento.

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La situazione globale

In molti paesi del mondo l’abuso economico non è ancora riconosciuto come una forma di violenza. In molti stati, come Malesia, Australia, Turchia, Nigeria, è l’abuso meno riconosciuto. In Algeria, secondo un sondaggio del 2016, il 100 per cento delle intervistate crede sia giusto che il marito si appropri dello stipendio della moglie. Nel Regno Unito due persone su tre hanno detto di non aver mai sentito il termine “financial abuse”. Eppure, nel paese, una donna su cinque è stata soggetta ad abusi economici da parte del partner attuale o ex negli ultimi dodici mesi, e il 95 per cento delle vittime di violenza domestica almeno una volta ha subito anche quella economica. È difficile individuare nello specifico le percentuali di vittime per paese, ma, come riporta l’associazione Surviving Economic Abuse, è diffusa ovunque a livello globale.

L’importanza del lavoro

L’accesso al mondo del lavoro per donne e uomini è ancora diseguale. La difficoltà che le donne incontrano aumenta il rischio di diventare economicamente dipendenti da qualcuno. La possibilità di lavorare, infatti, rappresenta uno strumento fondamentale per far fronte ai casi di violenza economica. Eppure, secondo l’ente delle Nazioni unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile (Un Women), oltre 2,7 miliardi di donne vivono in paesi che legalmente impediscono loro di avere le stesse opportunità di lavoro degli uomini.

Inoltre, 104 economie su 189 hanno leggi che impediscono alle donne di svolgere determinati tipi di lavoro. E in 18 la legge stabilisce che i mariti possono impedire alle mogli di lavorare. Il risultato è che meno donne lavorano a livello mondiale: il 63 per cento di quelle tra i 25 e i 54 anni aveva un impiego nel 2022, contro il 94 per cento degli uomini nella stessa fascia d’età.

Anche in Italia non è possibile dire con precisione quale sia il grado di diffusione del fenomeno.

Il caso italiano

Alcune indicazioni arrivano dal rapporto annuale dell’associazione D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza), secondo cui quasi una donna su tre tra chi si è rivolta ai centri antiviolenza (cav) è a reddito zero. Inoltre, almeno il 32,2 per cento delle donne subisce violenza economica, un dato superiore a quella sessuale e allo stalking. Il numero però potrebbe essere molto più alto perché non si ha ancora piena consapevolezza del fenomeno e spesso le vittime si rivolgono ai cav solo quando si verificano episodi di violenza che reputano più grave, come quella fisica o psicologica. Un’indagine di Differenza Donna ha dimostrato che, tra coloro che si rivolgono ai centri antiviolenza, solo il 20 per cento racconta durante il primo colloquio di averla subita. Il dato però sale all’80 per cento durante gli incontri successivi.

È raro che uno dei maltrattamenti si manifesti in modo isolato, sono più i casi in cui si verificano insieme: il 63,5 per cento delle donne che contatta il numero di emergenza 1522 dice di aver subito più di un tipo di violenza.

In Italia, secondo i dati di Episteme riferiti al 2019, il 37 per cento delle donne non possiede un proprio conto corrente. I dati non sono confortanti nemmeno se si guarda all’ambito lavorativo: il 22 per cento ha un partner che non vuole che abbia un impiego, il 44 per cento non ha accesso alle risorse economiche familiari.

Il reddito di libertà

Nel 2020 è stata stabilita per la prima volta l’introduzione di un sostegno economico a livello nazionale destinato a donne che cercano di uscire da situazioni di abusi e si trovano in condizioni economiche svantaggiate. Ha preso il nome di “reddito di libertà” e corrisponde a un contributo di 400 euro al mese per massimo un anno. La misura è effettivamente diventata operativa nel novembre 2021. Tra il 2020 e il 2022 è stata finanziata con 12 milioni di euro, una cifra però insufficiente per far fronte a tutte le richieste. Secondo i dati Istat, infatti, le persone che ogni anno potrebbero accedere al contributo sono circa 21mila.

Nel primo anno di entrata in vigore, secondo i dati dell’Inps, sono state presentate 3.283 richieste. Ma i contributi erogati sono stati appena 600, non riuscendo a soddisfare la domanda in nessuna delle regioni. Nella legge di Bilancio 2023 il fondo è stato rifinanziato con appena 1,8 milioni di euro. A partire dal 2024 il finanziamento dovrebbe aumentare, passando a sei milioni all’anno. Una cifra maggiore, ma comunque inferiore rispetto al 2022 (9 milioni di euro).

Quali sono le soluzioni

Per prevenire la violenza è fondamentale partire dall’educazione economica fin dai primi anni d’età. Secondo il sondaggio di We World, la quota di donne che non si sente per nulla preparata sui temi finanziari è più del doppio rispetto a quella degli uomini. Inoltre, quasi nove italiani su dieci (88 per cento) sostengono che programmi di educazione economico-finanziaria nella scuola primaria siano fondamentali per fornire le conoscenze di base. La mancanza di denaro si traduce in una mancanza di possibilità di scelta per le donne. Perché i soldi sono sinonimo di potere, un potere che può essere esercitato solo se c’è l’opportunità di essere indipendenti, di emanciparsi. Anche scegliendo di andare via da un contesto violento.

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