Interno pomeridiano in una enoteca di provincia. La luce filtra aggressiva dalla vetrina di ingresso, e nonostante la presenza del condizionatore d’aria sparato al massimo, le bottiglie soffrono, e così il resto del personale. Entrano due energiche signore; vogliono acquistare una bottiglia di vino per il pranzo di Ferragosto, perciò recupero le forze e le accompagno nella sala espositiva della bottega, illustrando quali vini possano impreziosire il menù snocciolato dalla più vivace delle due.

Dopo aver passato in rassegna svariate etichette elencando, oltre al vitigno, le qualità del produttore e qualche accenno circa la sua vita privata per creare empatia e far capire lo stile della casa, dettagliata panoramica sulle caratteristiche geoclimatiche della zona di produzione, metodo di vinificazione e altre questioni di minore importanza, la signora più arzilla afferra una bottiglia sfuggita alla panoramica e si rivolge alla più schiva: «Qui c’è scritto Nebbiolo, prendo questa perché il Nebbiolo è buono, vero Donatella? La mia amica conosce il Nebbiolo anche se è astemia ma se dice che è buono io lo prendo. Di lei mi fido, è mia amica!».

Le giornate che scorrono in enoteca sono tutte piuttosto simili.

Si inizia arginando un agente entusiasta della vita che irrompe senza appuntamento, ma è sicuro che i suoi vini starebbero benissimo in un locale come il mio anche se non ha badato alle etichette esposte negli scaffali, ma non è un problema perché «la tale blasonata azienda che produce milioni di bottiglie ha creato per i clienti come voi una linea di vini senza solfiti», che per chi dedica tempo ed energie a cose diverse dal vino – tipo la vita vera – è come dire che le patatine del fast food sono fritte con acqua di fonte, dato che i solfiti si sviluppano naturalmente durante la prima fermentazione del mosto.

Le ore si snodano agili tra preparazioni di cibo da abbinare alla mescita e clienti intimiditi che vogliono acquistare bottiglie premettendo con chiarezza che loro, di vino, non ne capiscono granché; dunque il mio compito è quello di rassicurarli spiegando che di fondo il vino unisce, non respinge, ma anni e anni di supercazzole enoiche hanno generato schiere di persone terrorizzate dal non riconoscere il marcatore di macis papua che spicca così bene nella tale bottiglia di cui si parla così tanto.

Un lavoro socialmente utile

L’enoteca si anima verso l’ora in cui la gente finisce di lavorare. Gli avventori sono per lo più appassionati curiosi e qualche studente della vicina facoltà di Agraria; qua e là riconosco il primo appuntamento tra due iscritti a Tinder. Chi ostenta padronanza domanda calici di vino minerale o, in alternativa, fruttato. Qualsiasi cosa significhino i due aggettivi. Altri clienti vogliono vini aromatici per via delle signore presenti, perché si può essere inclusivi quanto si vuole e sostenere l’uso dello schwa anche per la stesura della lista della spesa: il maschio medio ordinerà quasi sempre un Gewürztraminer per le dame.

Per quanto mi riguarda, in quanto donna e titolare di enoteca con mescita, mi batterò con tutta la forza di cui dispongo per sostenere il “fronte di liberazione femminile dal Gewürztraminer”. Nel frattempo, i tinderisti che si sono immediatamente piaciuti chiedono una bottiglia di «Fai tu, ci fidiamo» ed è lì che do il meglio, perché proponendo qualcosa che a me piace particolarmente, spiegandone le caratteristiche, offro un argomento di conversazione valido per rompere il ghiaccio tra i due. Insomma, qui si non si tratta solo di vino, ma di lavoro socialmente utile.

Di vino in vino

Il tempo inizia a scorrere con un ritmo più sostenuto tra bottiglie acquistate da clienti invitati a cene dell’ultimo minuto e ospiti curiosi che provano vini di cui non riconoscono le etichette; tavolate di ragazze che bevono di tutto e chiedono di pagare meno di quanto dovuto, e poco importa se negli altri paesi si lascia la mancia: tentare la via dello sconto alla cassa è un imperativo morale, che prescinde dalla qualità di ciò che è stato consumato.

Tra le richieste di gin erborinato e Prosecco Franciacorta (tutto vero), la bottega accoglie spesso diversi produttori – non sempre locali – incuriositi dal giro di clienti che affollano il bancone nonostante i tempi poco felici. Sono quasi certa che le visite servano per verificare di persona in che mani sono finiti i propri vini, se sono raccontati con le giuste sfumature, ma soprattutto se vengono capiti dal consumatore finale. Ed è comprensibile, perché quello imbottigliato dai vignaioli non è solo vino, ma il duro lavoro frutto di annate sempre più complicate.

Non sono una enotecaria improvvisata: ho scelto di fare questo lavoro molti anni fa, contravvenendo agli studi fatti e nonostante le occhiate preoccupate dei miei genitori che non hanno mai capito quanto potesse piacermi il vino e tutto quello che gira intorno alla bottiglia: le persone che lo fanno, un diverso occhio con cui leggere geografia, clima e storia, la sensazione profonda e intima legata a ricordi olfattivi che non riesco a collocare nella mia vita e che alcuni profumi dentro al calice sono in grado di scatenare.

Grazie a questa enorme passione ho cercato di formarmi nel modo più didattico, seguendo corsi e investendo denaro e tempo per organizzare giri in cantina nelle zone di produzione che conoscevo meno, iniziando a fare ricerca tra le centinaia di produttori non ancora noti, e trarne un profitto che mi permettesse di campare decentemente.

Le signore Donatella

Prima di intraprendere questo mestiere e passare dall’altra parte del bancone, sono stata cliente per moltissimi anni durante i quali ho bevuto – più o meno consapevolmente – cose che oggi faticherei ad affrontare per mille ragioni, tutte condivisibili, frutto delle mode del momento, ma che allora sono servite per creare un personalissimo archivio grazie al quale riesco a decidere se un’etichetta è giusta per il pubblico che frequenta la mia bottega, terra d’approdo di ultra trentenni nativi naturali – ovvero quelle creature strane e attraenti che hanno iniziato la personale educazione al vino saltando la trafila dei vinoni cheap adatti alle tasche dell’universitario fuori sede, per rivolgere il proprio interesse verso il vino cosiddetto naturale, preferibilmente molto macerato sulle bucce o rifermentato in bottiglia.

Se per qualche motivo sconosciuto il parterre social degli appassionati di vino – raccontato e bevuto – è terreno fertile per imbastire feroci litigi tra sostenitori di fazioni opposte, come ad esempio il vino convenzionale rispetto a quello naturale o la necessità di favorire i vitigni autoctoni al posto degli internazionali, nel microcosmo di una enoteca con mescita dove il cliente medio fatica a cogliere le sfumature tra biologico e biodinamico, e ordina – con malcelato candore ma ostentando padronanza – «un vino fruttato, minerale o in alternativa uno sciardonné», si azzerano tutte le chiacchiere oziose tra chi discetta di vino nei numerosi gruppi Facebook rendendo ciò che storicamente nasce come un alimento, una roba astratta di cui ragionare con tecnicismi che respingono o, al contrario, prose ridondanti da romanziere ottocentesco.

Perciò non importa quanto si è abili nell’andare in giro per fiere a scoprire nuovi produttori, o quanto si sia bravi a spiegare comprensibilmente per quale motivo il corno letamaio è inconciliabile con i trattamenti criogenici dell’uva: in enoteca ci sarà sempre una signora Donatella, astemia informata, capace di consigliare il vino meglio di un’enotecaria sull’orlo di una crisi esistenziale.

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