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Quando Enrico Rivetto entra in azienda, alla fine degli anni Novanta, porta con sé un’inquietudine sottile, un’insofferenza che non sa ancora nominare. La realtà vitivinicola di Lirano a Serralunga d’Alba è storica, quarta generazione, data di fondazione 1902. Intorno a lui, nella Langa che ama, sente qualcosa che stride: la routine convenzionale, l’inerzia del territorio. La sua prima annata è la 1999, ma aspetta dieci anni per fare di testa sua, nel 2008 converte l'azienda prima in biologico e poi in biodinamica: «È stato un rifiuto di ciò che vedevo attorno a me».

La biodinamica non come dottrina, ma come strumento, ma con un percorso che non nasce dall'accademia, ma dal corpo. Enrico ha una rinite pseudo-allergica, è ipersensibile agli odori forti e la puzza dei trattamenti sistemici era insopportabile. Quel fastidio fisico diventa gesto politico, prima ancora che agricolo. Poi arriva l’incontro con altri mondi: giovani agricoltori che coltivano mais antichi, orti, cereali, capre in Alta Langa.

Non il vino, ma la terra: «Mi sono reso conto del privilegio che avevo – spiega Rivetto – la gente veniva da me, pendeva dalle mie labbra, mentre loro lavoravano come matti senza che nessuno sapesse della loro esistenza». È lì che matura una consapevolezza nuova: la viticoltura, da sola, non basta. Comincia così una fase che lui definisce di “lucida follia”: spiantare filari, togliere vigne per piantare rose, cereali, lavande, siepi, alberi. Senza un piano rigido, seguendo un’intuizione. Nel tempo, questa follia diventa struttura: più di mille alberi piantati, cinque chilometri di corridoi ecologici, oltre cinquanta specie arboree e arbustive diverse, e un bosco di sette ettari che abbraccia l’azienda come una protezione naturale.

Il cambiamento a occhio nudo

Gli effetti sono visibili a occhio nudo: «Il numero di farfalle, di api, di bombi è decuplicato. Non servirebbero neanche i dati – che comunque raccolgo – basta fare una passeggiata». Resta, certo, il tema economico: produrre meno? Guadagnare meno? Giustificare scelte più costose? Ma la risposta di Enrico mette tutto in equilibrio: «Alla fine non ho perso bottiglie. Avevo più diritti di impianto di quanti volessi usare. Io voglio produrre 75-80mila bottiglie. Non mi interessa arrivare a 150mila».

Il movimento interiore trova forma nel paesaggio e, oggi, dopo diciassette anni di trasformazione, Enrico ha una certezza, la sua azienda non produce solo vino, ma un ecosistema complesso. «Non è perfetto. Il 20 per cento di ciò che ho piantato è morto. Ma fa parte del gioco. Ho scoperto che ci sono posti in cui una pianta non viene».

Nuove forme di socialità in Langa

C'è poi un altro pezzo di storia che fa capo sempre a questa filosofia che accetta l’imperfezione e che sostituisce il controllo totale con la convivenza ed è quella della comunità. Il caso più emblematico è l’home schooling. Si parte da un piccolo gruppo di genitori che non trovano risposte nella scuola tradizionale. Lui mette a disposizione spazi, supporto, un luogo. «Non era nei piani, è successo. Ma una comunità si crea così: dando la possibilità alle persone di incontrarsi». Oggi quel progetto educativo coinvolge famiglie, bambini, insegnanti. La retta è la metà di quella di un buon asilo milanese, si studia, si gioca, si fa esperienza pratica in campo e si va via dopo pranzo.

Anche le navette sono organizzate tra le famiglie e se c'è qualche necessità impellente, grazie ai gruppi WhatsApp, c'è sempre un genitore che risponde. Lo stesso è accaduto con il basket, passione personale del produttore: «Quando mia figlia ha deciso di giocare mi sono chiesto cosa potessi fare per darle una mano». La risposta, in un territorio dove mancano palestre, strutture e soprattutto opportunità per le ragazze, è stata questa: fondare insieme a un altro genitore la prima squadra femminile di pallacanestro della zona.

Squadra femminile di pallacanestro 

É nata così Twin Towns, una squadra che unisce due mondi storicamente rivali, Langa e Roero — «come Napoli e Caserta», scherza Rivetto — con ragazze che arrivano da Alba e Bra. Un piccolo miracolo che dura ormai da sette anni. «Abbiamo anche vinto il campionato di Serie C, siamo saliti in Serie B e poi retrocessi. Una fiammata inattesa, alimentata dall’arrivo di giocatrici più grandi — 25, 28, 30 anni — che non trovavano squadre tra Cuneo e Torino». Il cuore del progetto resta però quello originario, con le giovani tra i 15 e 18 anni. Non la performance, ma la crescita. «L’obiettivo più grande è farle giocare, imparare la disciplina e soprattutto farle stare lontane dal cellulare. Per due ore al giorno, per quattro giorni la settimana, queste ragazze vivono». Proprio come il pezzo di Langa a Lirano coltivato da Enrico.


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