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Nel lessico gastronomico contemporaneo la parola “sostenibilità” ha subito un fenomeno di acquisto semantico senza precedenti. Un termine nato per indicare modelli produttivi responsabili e verificabili è oggi utilizzato con una leggerezza tale da trasformarlo in puro ornamento linguistico. Nel giro di pochi anni è passato da concetto operativo a marchio identitario, adottato da aziende e operatori del settore alimentare come una sorta di lasciarepassare morale più che come descrizione di pratiche reali. È diventato un elemento estetico: qualcosa che si stampa sulle confezioni e si inserisce nei comunicati stampa con la stessa naturalezza con cui si aggiunge un ingrediente a una ricetta.

La distanza particolarmente crescente tra dichiarazione e pratica è evidente nel mondo del caffè, un settore in cui la sostenibilità è divenuta arma di comunicazione quasi obbligata. Basta osservare gli scaffali della grande distribuzione: confezioni che proclamano il proprio impegno etico tramite foglie verdi, evocazioni di foreste tropicali, certificazioni bio facilmente acquistabili sul mercato e diciture che promettono responsabilità sociale. Eppure, nella maggior parte dei casi, questi prodotti appartengono a una fascia qualitativa mediocre (per non dire scarsa), spesso torrefatta appositamente in malo modo per mascherare difetti di origine e lavorazioni poco accurate. La sostenibilità si riduce così a un'abile strategia per riabilitare un caffè che non avrebbe altri argomenti persuasivi.

Fuori dalla retorica

Ma la questione centrale non è l'etichetta, ma la trasparenza della filiera. È qui che il settore del caffè rivela con maggiore evidenza la distanza tra linguaggio e realtà. Da un lato si moltiplicano i prodotti che ostentano sostenibilità attraverso marchi grafici, foreste tropicali stilizzate, certificazioni talvolta non più che simboliche; dall'altro esiste un ecosistema molto più ristretto composto da torrefazioni che hanno deciso di sottrarsi alla retorica, scegliendo un approccio radicalmente diverso. Il loro lavoro non si costruisce con lo storytelling, ma con la tracciabilità. Sono realtà che instaurano relazioni dirette con i produttori, visitano regolarmente le piantagioni, effettuano i processi di fermentazione e di essiccazione, controllano la salute del suolo e la presenza di biodiversità, e soprattutto documentano – spesso in modo pubblico – ogni fase del percorso del chicco.

Questa trasparenza, che a molti potrebbe superficialmente sembrare un vezzo, è in realtà un elemento strutturale di un mercato che, da decenni, ha reso opache le proprie dinamiche. Per la maggior parte della storia moderna, il prezzo del caffè verde è stato determinato dalle borse internazionali, indipendentemente dai costi di produzione reali. Questo meccanismo ha portato ad una compressione dei margini dei coltivatori, spesso costretti a vendere a un valore inferiore al costo stesso della coltivazione. In questo contesto il concetto di “caffè sostenibile” venduto a pochi euro al supermercato si svela per quello che è: un paradosso economico. Se un pacchetto di caffè costa meno della somma necessaria per produrlo, trasformarlo e commercializzarlo, significa che qualcuno nella filiera sta pagando la differenza. Ed è quasi sempre chi si trova all'origine del processo.

Le microtorrefazioni che lavorano con modelli realmente sostenibili intervengono proprio su questo squilibrio sistemico. Pubblichiamo i prezzi Fob (Free On Board), cioè il valore effettivamente pagato alla cooperativa o al produttore prima che la merce lasci il porto di origine; specificano se tali prezzi superano gli standard Fairtrade, spesso considerati insufficienti a garantire condizioni di vita dignitose; mostrano documenti doganali, certificati di analisi, schede sensoriali e report agronomi. La sostenibilità, in questo caso, diventa un processo verificabile, non un reclamo infiocchettato in nome del profitto. È una relazione economica prima ancora che morale: pagare di più permette a chi coltiva di investire in pratiche agricole più rispettose del suolo, in metodi di fermentazione più accurati, in varietà botaniche più delicate e aromatiche, tutte scelte che altrimenti sarebbero inaccessibili.

Il contesto

Oltre al valore economico, la sostenibilità reale nel caffè riguarda la dimensione agronomica. L'agricoltura del caffè è storicamente basata su sistemi intensivi che impoveriscono i terreni, riducono la biodiversità e aumentano la biodiversità delle piante ai cambiamenti climatici. La fluttuazione delle temperature, l'aumento dei parassiti e l'alterazione delle stagioni delle piogge stanno già devastando intere regioni produttrici. Le torrefazioni impegnate in filiere trasparenti investono invece in progetti agroforestali, sistemi di ombreggiamento naturale, recupero delle acque di lavorazione e programmi di riforestazione locale. Il risultato non è solo un miglioramento ambientale, ma anche un incremento della qualità sensoriale del chicco, perché una pianta coltivata in un ecosistema sano produce frutti più complessi, più ricchi, più stabili.

C'è poi un elemento meno raccontato: il ruolo della tostatura come atto finale di responsabilità. Un caffè di alta qualità, frutto di un lavoro meticoloso in piantagione, può essere decisamente compromesso da una tostatura scorretta. Le grandi industrie, per ragioni di standardizzazione e di mascheramento dei difetti, utilizzano spesso profili di tostatura molto spinti, che bruciano gli zuccheri e appiattiscono le sfumature aromatiche. Le microtorrefazioni orientate alla sostenibilità adottano invece curve di tostatura lente, mirate, calibrate sui difetti minimi e sulle potenzialità varietali del chicco. La trasparenza, qui, passa dal dare al caffè ciò che ha già fatto nel suo percorso: rivelarlo nella sua qualità.

Un caffè acquistato a un prezzo equo e tostato con cura non è sostenibile per ciò che dichiara, ma per ciò che restituisce: una filiera in cui il valore creato viene ridistribuito. Questa ridistribuzione è la differenza concreta tra un sistema che sfrutta e un sistema che costruisce. È ciò che permette alle comunità agricole di emanciparsi dalla volatilità dei mercati e di investire in pratiche che proteggono il suolo, l'acqua e le generazioni future. Ed è anche ciò che, sul piano gastronomico, restituisce al consumatore un caffè che non è semplicemente “giusto”, ma oggettivamente più buono: più complesso, più trasparente, più vero. Perché, nel caffè, la sostenibilità è sì un principio etico, ma è anche e soprattutto una condizione minima per raggiungere la qualità.

Tra narrazione e realtà

Un discorso analogo riguarda il cacao, forse ancora più complesso per dimensioni economiche e implicazioni sociali. Negli ultimi anni l'espressione  “bean to bar” ha conosciuto un successo racconto da essere applicata con disinvoltura ben oltre il suo significato originario. Da pratica artigianale rigorosa, che prevede il controllo di ogni fase - dalla selezione delle piantagioni alla fermentazione, dall'essiccazione alla tostatura, fino alla raffinazione e alla concatura - è diventato un'espressione utilizzata anche da produttori che si limitano a sciogliere masse di cacao industriali già pronte. La distanza tra la narrazione e la realtà di laboratorio è spesso abissale. È una distorsione che non danneggia solo il consumatore, ma l'intero ecosistema produttivo, perché impedisce di distinguere tra chi investe in un lavoro complesso e costoso e chi invece sfrutta un'etichetta di moda.

Anche il cacao, così come il caffè, porta con sé un lato oscuro che non può essere ignorato. Le regioni produttrici - soprattutto in Africa occidentale - affrontano problemi di deforestazione sistemica, sfruttamento minorile, prezzi insostenibili per i contadini e monocolture che impoveriscono i terreni. Non basta che un prodotto sia etichettato come biologico per essere giusto: occorrono contratti equi, programmi che sostengono la diversificazione agricola, investimenti nelle comunità locali e una tracciabilità totale che permette di seguire il cacao dalla pianta alla tavoletta. Le aziende che intraprendono questo percorso sono poche, spesso costrette ad affrontare costi elevati e un mercato che fatica a comprendere perché il vero cioccolato artigianale non possa costare poco. Ma sono queste realtà – non quelle che si appropriano del linguaggio sostenibile – a restituire il senso alla parola.

In mezzo a questo panorama ambiguo esiste un terzo polo, più silenzioso ma fondamentale: quello di chef, artigiani, panificatori, ristoratori e piccoli produttori che non fanno della sostenibilità uno slogan, bensì una prassi quotidiana. Qui il concetto assume una dimensione culturale prima ancora che operativa. È la scelta di lavorare con materie prime stagionali, di ridurre gli sprechi attraverso tecniche solide, di instaurare rapporti duraturi con agricoltori e allevatori che condividono gli stessi principi. In queste realtà il linguaggio non precede mai il gesto: è il lavoro a parlare, non la retorica. La sostenibilità diventa così un metodo di lettura del mondo, un'interpretazione del proprio ruolo nella filiera gastronomica, una responsabilità che si esprime attraverso la cura della materia più che attraverso la comunicazione.

La conclusione, se esiste, è una forma di ritorno all'essenziale. In un'epoca dominata da narrazioni green sempre più sofisticate, ciò che distingue la sostenibilità autentica da quella ornamentale è sorprendentemente semplice: il gusto. La verità gastronomica non può essere separata dalla verità produttiva. Un caffè che proviene da una filiera ingiusta non potrà mai essere davvero buono, così come un cioccolato ottenuto da cacao sottopagato non potrà mai raccontare la complessità aromatica che solo una materia prima rispettata sa esprimere. Il gusto, in ultima istanza, è una forma di etica. Non perché deve essere morale, ma perché è la traccia sensoriale di ciò che è avvenuto prima: il lavoro di chi ha coltivato, raccolto, trasformato, selezionato, tostato, impastato, affinato.

Parlare di sostenibilità nel cibo significa quindi abbandonare la logica del reclamo e ritornare all'idea di verità materiale. La sostenibilità vera è solo quella dimostrata e praticata: non una foglia verde stampata su una confezione, ma la prova concreta che ciò che mangiamo - e ciò che beviamo - è il risultato di un mondo trattato con rispetto. Per il bene di tutti.


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