Arrivo puntuale e mio padre è già lì, lo vedo dal vetro, seduto nella sua stanza – potrebbe avere quaranta cinquanta o proprio i suoi anni, e io essere bambina, ragazzina o quella che oggi sono – è davanti a un tavolo fuori misura, da solo, a disegnare. Quando entro non alza lo sguardo dal rotolo di carta schizzi gialla che usa da quando ho memoria. Il disegno scorre in trasparenza, per diversi metri, sul tavolo rosso lacca.

-Elisa, si può sapere di che dobbiamo parlare?

-Possiamo fare quello che vogliamo. Siamo liberi.

-No, sei tu che vuoi fare questa cosa, quindi devi decidere tu.

-Io? Sei ingiusto.

-Addirittura.

Il telefono squilla, glielo faccio notare, non vuole rispondere.

-In effetti tu sei molto complicata però, ed essere complicati non è mai una buona idea, quindi è meglio se decido io. Cerchiamo di fare una cosa semplice: parliamo di futuro.

Smette di disegnare, chiude il pennarello. Mi guarda.

-Siediti.

Ha ragione, perché sono rimasta in piedi?

-Il futuro non è tanto semplice, e soprattutto mi pare proprio la cosa che manca in questo momento.

-Sei pessimista, io invece penso sempre che il mondo trova un modo per andare avanti e che le cose sono meglio di come le vediamo. È appena morto il papa: come si fa a non parlare di futuro? Bergoglio ha fatto geopolitica, la vera dimensione della contemporaneità.

-Che c’entra il Papa con il futuro?

-Te l’ho appena detto. E poi certo, dobbiamo cambiare il modo di pensare e di vivere, c’è bisogno di consumare meno, di produrre in un altro modo, usare nuove risorse…

-Ei, scusa se ti interrompo, ma così, di queste cose, potresti parlare con chiunque.

-E tu chi saresti invece?

Ride.

-Tua figlia. E tu sei mio padre, certo ce ne sono miliardi come noi. Però non possiamo comportarci da estranei.

Da quando figli e genitori non lo sono?

-Non è molto interessante parlare di famiglia Elisa, ti porta subito a fare recriminazioni, al passato. In effetti molti preferiscono parlare del passato perché lì non sbagli mai. La mia fortuna…

-È che è morto tuo padre quando avevi sei anni.

Raimundas, mio nonno, lituano, ebreo, esule, che appena trova un po’ di tranquillità muore a Roma nel 1950 a 39 anni.

-Proprio così. Potevo andare a finire malissimo, è vero, ma quella è una possibilità che hanno tutti, anche senza essere orfani.

-E tu sei proprio sicuro che è stato meglio così? Io preferisco che ci sei stato e che ci sei. Ti vorrei per sempre. Sono banale.

-Ma che vuol dire ci sei non ci sei… e poi per quanto tempo bisogna rimanere? La sola cosa che mi è chiara è che i figli devono sopravvivere ai genitori. Tutto il resto va bene.

-Però la vita è fatta anche di cose semplici, spesso ripetitive. Tipo vedersi, andare a mangiare, parlare al telefono…

-Siamo riusciti a produrre un mostro infernale: un’esistenza lunghissima. Ora la gente, io pure, deve sopravvivere oltre il tempo che gli è concesso e questo genera problemi di tutti i tipi.

-D’altronde vivere senza un proposito è bestiale, e il lavoro è un proposito.

-Sì ma c’è anche molto altro nelle nostre vite.

Detto da lui che ha lavorato sempre, da sempre, lui che da quando ho memoria odia le vacanze e si incazza se sente parlare di tempo libero.

-Poi certo c’è chi arriva all’esasperazione: voglio lavorare fino all’ultimo minuto. E così scegli quei lavori che ti portano a lavorare oltre il tramonto.

-E tu?

-Sono ovviamente come tutti, fino all’ultimo, oltre il tramonto, cercando di stare nelle migliori condizioni di salute fino al momento in cui dovrò dire adesso basta.

-Ti ricordi di altri funerali papali?

-Non avevi detto che dovevamo parlare come un padre e una figlia?

Ammesso di sapere come parlano un padre e una figlia.

-Non ho detto proprio questo.

-Mi ricordo dell’elezione di Giovanni XXIII, ero andato a San Pietro con la famiglia Spinelli, con Veniero, il fratello di Altiero.

-Perché ti hanno portato?

-Erano cattolici.

-Siamo in tanti.

-Arrivai lì, ci fu la fumata, e dopo un po’ si aprì la loggia centrale di San Pietro e uscì il papa che era una persona molto semplice, ma estremamente raffinata. Veniva da una famiglia contadina, era stato anche patriarca di Venezia. Avrò avuto dodici anni.

-Era il 1958.

-E allora ne avevo 14.

-E Dio?

-Dio cosa? Non mi sono mai posto il problema.

-Dio. Quello che vuoi.

-Se c’è, è una grande fortuna per lui e per quelli che ci credono. Per te, giusto?

-A tratti, d’altronde credere ha anche a che fare con il fallimento del credere, della fede.

Alza le mani.

-Vedi come sei complicata…

-Non hai avuto un padre, ma hai avuto molti padri e per questo dici che ti è andata meglio che a me, anche se, ripeto, preferisco la mia vita.

-Perché tu sei conservatrice.

-Mi vedi così bigotta?

-Ho detto conservatrice. Quando è morto mio padre, siamo rimasti io e mia madre, ma tante persone si preoccupavano per me, persone che mi hanno aiutato a crescere.

-Che padri hai avuto?

-Spinelli, Castelfranco, Caproni… De Chirico è stato più uno zio. Poi ce ne sono tanti altri, che neanche ricordo. Caproni era il mio maestro delle elementari e, visto che non avevo un papà, spesso mi invitava a pranzo. Io e Giorgio arrivavamo tardi a casa sua, i figli e la moglie avevano già mangiato, mangiavamo sempre soli. Andavamo a piedi da via Barilli dove era la scuola, fino a via dei Quattro venti, la sua casa era in un palazzone dell’Ina. In quel periodo tutti sognavano di avere una casa in una palazzina, e non nel centro storico che era considerato il posto dei più poveri. La cosa bella era l’acqua delle fontanelle, la più buona del mondo.

-Sei cresciuto subito, il contrario di oggi in cui non si cresce più. Siamo tutti figli e basta, un paese di eterni figli che continua a raccontare i genitori, i nonni o altri antenati. Mi chiedo davvero quale è il nostro rapporto con il futuro, ma anche con il presente (quindi con noi stessi).

-Mi fai domande difficili, senza risposta. So solo che cucinavo per mia madre a otto anni, le facevo il pranzo quando tornava da scuola (insegnava filosofia al liceo).

-Sei mai stato figlio?

-No. Non so come si fa il padre, ma non so neanche come si fa il figlio.

-Sì, però tu sei molto padre, sei quasi un padre-archetipo.

Addirittura.

-No, sono protettivo che è un’altra cosa; ho paura che succeda qualcosa di brutto alle persone che mi sono care.

-E da dove viene questa paura?

-Penso dalla protezione che non ho avuto e che ho spostato sugli altri.

-Per me un figlio è un punto di vista dall’alto, molto in alto, sulla vita di chi l’ha preceduto. E per te un figlio che cosa è?

-Non ho idea. Te l’ho detto.

-Però così non è divertente.

-Non sono mai stato padre e non sono mai stato figlio, sei contenta adesso?

-Perché hai scritto un libro È stato un caso (Mondadori)?

-A un certo punto stavo perdendo la memoria di alcuni eventi che volevo passassero alla mia famiglia e non solo: sono pezzi di una storia che è europea più che personale. Infatti la parte più importante del libro è la prima, quella che arriva fino al ‘68, dopo c’è il racconto del mio lavoro, di come è successo, ma per me conta l’inizio.

-Ognuno scrive per una ragione diversa, c’è anche chi scrive per inventarsi un passato, una memoria.

-Sicuramente, ma per me è anche un modo per ringraziare le persone che ho incrociato, quelle che sono state importanti nella mia formazione. La prima persona che mi ha messo in mano i libri è stata mia madre, avevamo tanti libri ma non avevamo soldi; Caproni traduceva libri perché non aveva soldi; ci sono sempre stati libri nella mia vita, credo siano stati la mia salvezza.

Avrei voluto io Giorgio Caproni come maestro elementare.

-Hai uno strano rapporto con il potere. E pure con i soldi.

-Sono nato povero, e a lungo non ho avuto soldi, oggi ho i soldi che mi servono per vivere e per mandare avanti il mio lavoro di architetto; un lavoro che ha bisogno di tante persone, di spazi, di investimenti per fare ricerca: non mi è mai interessato accumulare, anche se nessuno mi crede.

-Ti ricordi l’estate del ‘93 in cui avete deciso che saremmo andati a vivere a Parigi senza passare per Roma? Mi sono ritrovata con una valigia di costumi a iniziare una vita in un’altra città. Avevo 12 anni, non conoscevo nessuno lì, mi sentivo morire, ho sofferto come un cane.

-E perché non me l’hai detto?

-In fondo non mi pareva così rilevante, e poi è stata la mia fortuna, così non ho mai avuto la tentazione di appartenere a un gruppo. Diciamo che mi è andata bene complessivamente.

-In effetti… non è sempre stata facile la nostra vita, ci siamo trasferiti perché era il momento di farlo. La questione della casa nasce per superare il nomadismo: a un certo punto non volevo più non avere un luogo mio, ed essere uno che non sa da dove proviene.

Nel 2022 è tornato a essere (anche) cittadino lituano. E anche io ora ho due passaporti, italiano e lituano.

-Ti riferisci a quando siamo tornati a Roma, dopo che è nata Lavinia (mia sorella, sua figlia).

-Sì. Il giorno che con tua madre decisi di essere romano.

-Però sembri sempre in fuga.

-Hai ragione: una volta sfuggivo dal nomadismo, una volta dall’essere fisso in un luogo. Avere tre studi mi fa sopravvivere al fatto che devo avere una forma di stabilità, stabilità che io detesto: amo l’instabilità, che per me è l’unica forma di esistenza.

-Interiore o esteriore?

-Stessa cosa. Non ho mai amato la mancanza di movimento, nei progetti, nei ragionamenti. E forse alla fine non amo né spostarmi né stare fermo.

-«Non parto non resto», dice un arazzo di Boetti. E quindi che si fa?

-Cominci a sognare, la vita del sogno ti permette di sopravvivere: sogni un altro mondo che non può essere chiuso in un quadro semplice.

-E Doriana – tua moglie, che hai sposato tre volte, e che è anche mia madre – che c’entra?

-Ognuno c’entra per sé stesso.

-Se non l’avessi incontrata?

-La mia vita sarebbe stata peggiore, perché mi ha dato il coraggio che non ho; l’ho ammesso solo recentemente.

-In effetti tu sei incosciente.

-O forse sono coraggioso senza saperlo.

Il dialogo si interrompe, entra Federica, la sua assistente, gli ricorda che ha un appuntamento tra meno di un’ora. E quando richiude la porta a vetri noi non sappiamo riprendere a parlare. Finché non mi viene un’idea, tiro fuori il computer.

-Che fai?

-Ti faccio un pezzo di interrogatorio omeopatico, in pratica è un’intervista che serve al medico per capire chi sei.

-Oddio.

-Lo prendo dal mio romanzo, quello che dici di avere letto.

Ride.

-Funziona anche se non ti curi con l’omeopatia, funziona anche per noi.

-Ma così ora sei tu che fai le domande.

-Mi pare che le ho sempre fatte io. Il momento in cui ti senti meglio durante la giornata?

-La mattina presto, verso le sei.

-La stagione in cui ti senti peggio?

-Non lo so.

-La nebbia?

-Per favore, parliamo di cose serie.

Rido.

-Sei abitudinario?

-Sarei abitudinario, farei le stesse cose, odio fare le stesse cose, però le faccio.

-Se riduciamo la giornata all’essenziale, tutte le giornate si somigliano, vale per tutti.

-La cosa che detesto di più è il tempo speso a fare cose non produttive, ma necessarie dal punto di vista igienico-sanitario. Per questo magari decidi di lavarti i denti mentre leggi le mail. Così ti pare di risparmiare tempo, ma la verità è che il tempo si perde comunque.

-Ma come, dici sempre che il tempo non esiste.

Ride.

-La sveglia?

-Alle 6.

-Ti svegli stanco?

-No.

-Fumi?

-No. Mai.

-Timido?

-Certo. Lo sono stato, lo sono, sì.

-Geloso?

-No. Nella vita capita di fare un edificio o trovare una soluzione che magari altri poi hanno copiato, all’inizio ti dispiace, dici peccato, poi capisci che è un bene, perché così la tua idea circola.

Mi stupisce come riferisca la gelosia al suo lavoro e non a una relazione.

-Cosa ti fa arrabbiare?

-La stupidità. A te?

-L’inconsistenza e l’opportunismo. Sei impaziente?

-Vorrei fare tutto e subito. Immediatamente.

-Ansioso?

-Non sono né ansioso né stressato. Ho tanti altri problemi.

-Per esempio?

-Vorrei avere quello che però non cerco: una forma di tranquillità.

-Tu subisci il contesto: guerre, crisi, instabilità.

-Più mi occupo del mondo e più perdo energie per fare il mio lavoro. Non riesco a farlo, penso ad altro, a quello che succede.

-La felicità, quante volte ti è capitata?

-Una volta, me la ricordo: tornavo con la macchina, il mio duetto, era estate e avevo finito gli esami all’università, stavo nel sottopasso a Roma: mi sono sentito felice.

-È durata poco. Ed è successo tanto tempo fa.

-Pochissimo.

-Sogni?

-Tantissimo.

-Beato te. Sono storie compiute o frammenti?

-Sogno tutta la notte. Ricordo più che altro l’atmosfera.

-Usi i sogni nel tuo lavoro?

-Alcuni tento di usarli ma non riesco. Non si afferrano. Solo di quello che arriva nel dormiveglia riesco a catturare qualcosa.

-Ma quelli sono pensieri, non sono sogni. Hai paura di qualcosa? Visto che non sei coraggioso.

-Che soffra chi mi è caro.

-Fortuna o caso?

-Caso. È stato un caso…

-C’è qualcosa di immortale secondo te?

-Immorale?

-Immortale.

-È difficile far diventare l’uomo immortale, però se presi come specie siamo un po’ più immortali, nonostante i danni e i guai che l’uomo nella sua storia ha combinato, le crisi, gli ammazzamenti, continuiamo a esserci, ad andare…

-Non si sa verso dove, dove va questo futuro? E, allora, come immagini il futuro?

-Mancanza di sofferenza e totale uguaglianza. Secondo me presto non potrà che essere questa l’omeostasi del mondo.

-Se fosse una scena?

-Un luogo dove non esiste l’uomo, solo la natura.

-Quindi non ci saranno uomini, forse però le opere dell’uomo sì. L’unico problema è che le cose non hanno sentimenti.

-Questo lo dici tu. Le cose hanno una forma di umanità, molto più di quello che crediamo. Grazie alle persone che cambiano e che le abitano, le vivono, gli edifici per esempio rigenerano in continuazione la propria umanità.

-Sei sentimentale?

-No, e non sono neanche romantico né nostalgico. Però mi commuovo quando il finale è buono. Non amo i finali negativi, cerco finali felici.

-Un desiderio?

-Fare un buon progetto che serve a tutti. Se fai un buon teatro, un buon museo, una piazza, un posto dove la gente vive meglio, fai felice te e fai felici gli altri.

-È la cosa più difficile.

-Far felice tutti?

-Stare nel mondo.

-Perché devi appartenere al mondo di tutti? Finché vivi nel tuo mondo, vivi bene.

-Un po’ solitario.

-Scusami Elisa ma quanti siamo? Mi pare uno, non cinque. Più di uno non puoi essere.

-Talento o successo?

-Talento, ma va coltivato. Il successo è solo un’astuzia per vivere.

-Pensi di conoscerti?

-Mi sento estraneo a me stesso. Vivo una doppia vita: la mia e la vita di uno che si guarda. E questi due non sono mai d’accordo.

-Come fai?

-Male.

-E soprattutto chi è quello che ha a che fare con me: quello che vive o quello che guarda?

-Una volta l’uno, una volta l’altro; davvero non l’avevi ancora capito?


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