La mobilitazione di Genova ha aperto una due giorni di manifestazioni nazionali. Portuali, studenti e lavoratori sono scesi in strada insieme a delegazioni internazionali: dai rabbini newyorkesi agli attivisti europei. Al centro, la richiesta di fermare le armi, difendere i diritti sociali e colmare lo iato con una politica sempre più distante. Sabato il corteo a Roma
La mobilitazione di Genova di venerdì 28 novembre si inserisce in un fine settimana di proteste nazionali che culmina nella grande manifestazione di sabato 29 a Roma. Un weekend che parla all’Italia ma che, già dalle prime ore del mattino sotto la stazione di Brignole, rivela un respiro più ampio.
In piazza non ci sono soltanto studenti, lavoratori e famiglie provenienti da molte regioni, ma anche presenze internazionali giunte proprio per unirsi al corteo. Due rabbini arrivati da New York, un manifestante tedesco, attivisti europei e altri ancora: un mosaico che testimonia come la mobilitazione abbia superato i confini nazionali, inserendosi in una rete globale di solidarietà e opposizione alla guerra.
«Il portuale ce l’ha insegnato: bloccare le armi non è reato». Con questo slogan gli studenti hanno raggiunto la testa del corteo davanti alla stazione. È qui che alle 8:30 ha preso forma la manifestazione, che avrebbe richiamato secondo gli organizzatori circa 5mila persone. Dal varco di Brignole, il corteo si è messo in marcia – via Fiume, via XX Settembre, piazza De Ferrari, via Roma, Portello, via Gramsci, via Buozzi – fino ai varchi portuali di San Benigno. La piazza è composita e rumorosa: portuali, operai, precari, studenti, infermieri, famiglie. Al centro, la sigla del Calp – i portuali di Genova –che per molti rappresentano un punto di riferimento. Il corteo procede a strappi: non solo slogan e striscioni, ma pause, discussioni, scambi rapidi, pezzi di politica fatti a voce alta.
Porti e internazionalismo
Poco prima della partenza, Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sui territori palestinesi occupati – in piazza insieme agli attivisti Greta Thunberg e Thiago Avila – ha insistito proprio su questa dimensione internazionale. «Oggi a Genova ci sono persino due rabbini arrivati da New York. Questo internazionalismo affonda le radici in ciò che i portuali di Genova e i sindacati di base stanno facendo da anni. I portuali si battono contro la guerra nel modo più nobile: attraverso il loro lavoro. E hanno dato un impulso decisivo alla coscienza che in Italia si è sviluppata sul genocidio in corso a Gaza», dice la relatrice Onu a Domani.
Per Albanese, la narrazione dominante del “cessate il fuoco” è una finzione: «Il cessate il fuoco non esiste a Gaza, esiste solo nell’immaginazione di chi vuole credere alla fandonia del secolo. È stato imposto all’opinione pubblica, non ai fatti».
Il legame tra Gaza e le rivendicazioni sociali italiane è, per lei, diretto: «La Palestina non è separata da ciò che succede qui. La finanziaria tocca i diritti dei lavoratori e dei precari, ma riguarda anche Gaza e le istanze che oggi esplodono ovunque. Chi arriva da New York, compresi i rabbini, lo dice chiaramente: ciò che accade qui deve accadere anche altrove».
Il contrasto reale, secondo Albanese, è quello tra piazza e istituzioni: «Vivendo fuori dall’Italia lo vedo benissimo: siamo fonte d’ispirazione per molti, ma lo iato con la classe dirigente non è mai stato così evidente. Tanta gente non vota più: i partiti hanno smesso di rispondere alle istanze reali e rispondono agli interessi del mercato. È per questo che la gente protesta, e fa bene».
Sulle polemiche relative alla manifestazione precedente – accusata di essere «solo per la Palestina» – è netta: «Il benaltrismo è l’arma degli ignoranti». E ribalta la critica: «Qui c’è gente che ha l’ambizione di cambiare il sistema: ridare diritti ai precari e ai lavoratori, e ridare dignità al popolo palestinese, oggi simbolo delle ingiustizie inflitte nel resto del mondo».
E critica frontalmente il governo: «Un esecutivo che destina il 5 per cento del Pil alle spese militari non sta pensando al popolo italiano. E non è solo l’Italia: tutto l’Occidente non sta pensando alla propria cittadinanza. Perché ci si riarma così ferocemente?».
Crisi del modello sociale
Maurizio Rimassa, segretario di Usb in Liguria, riporta la discussione al cuore della manovra: «Il 5 per cento della finanziaria va alle spese militari. Tutto è costruito dentro la necessità di allinearsi ai parametri Nato ed europei. Alla sanità e al welfare restano le briciole», ci spiega. Il problema non è tecnico, ma politico: «La sanità pubblica non garantisce più neppure l’essenziale, e l’aumento delle spese finisce nella sanità privata».
Rimassa non crede che questo sciopero segni da solo una rottura, ma indica un punto di svolta: «Il modello sociale si è rotto quando ha preso il sopravvento il liberismo: precarietà, tagli, sostegno cieco all’impresa. È un processo lungo. Ma la presenza di tanti giovani in piazza segnala che le disuguaglianze stanno tornando al centro».
Gaza, però, resta la ferita più esposta: «Non possiamo fingere che non esista più. Si continua a morire», dice Rimassa. «Abbiamo chiesto embargo, interruzione dei rapporti. La fase più acuta non è finita».
In mezzo al corteo, alcuni studenti stringono foto di amici «là fuori»; altri portano messaggi scritti sui jeans: «Nessuno è libero finché tutti non lo sono».
La tregua contestata
Tra i presenti c’è anche Yanis Varoufakis. Ci rivolge poche parole, durissime: «The war is over? It’s not true. Il cessate il fuoco è una finzione. Chiedono ai palestinesi di smettere di resistere mentre Israele continua a colpire e uccidere. Il genocidio continua». E sulla ricostruzione annunciata dall’Italia: «Giorgia Meloni è complice del genocidio. Di quale ricostruzione parlate? Della sua conclusione».
Assente l’artista Moni Ovadia, che raggiungiamo telefonicamente. Ovadia definisce la tregua una «messa in scena» e attacca il governo: «Forse non è fascista, ma i suoi atti lo sono. Delegittimare lo sciopero è tipico del fascismo». Poco prima, dal camion in testa al corteo, la voce di Greta Thunberg è rimbombata tra gli edifici: «Il genocidio è ancora in corso. Il 90 per cento dei palestinesi soffre di malnutrizione». Ringrazia Genova e i suoi portuali «per essere un faro di libertà» e avverte: «Non possiamo restare in silenzio di fronte alle ingiustizie».
Quando il corteo ha finalmente raggiunto i varchi portuali di San Benigno, la città sembrava quasi sospesa. Le strade del centro, le persone ferme ai lati, gli sguardi che seguivano la marcia hanno raccontato un luogo che si è fermato per ascoltare una moltitudine di istanze – Gaza, lavoro, sanità, uguaglianza – riunite in un’unica richiesta: dignità e giustizia.
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