La fame uccide molto lentamente. E a Gaza in due anni ha ucciso almeno 459 persone, tra cui 154 bambini. «A volte uccide anche attraverso altri sicari, come infezioni o complicanze di interventi chirurgici». È quello che accade nella Striscia, dove Giorgio Monti, coordinatore medico della clinica di Emergency nell’area di Khan Yunis lavora da un anno. L’organizzazione gestisce due cliniche.

Ad agosto a Gaza l’Onu aveva dichiarato lo stato di carestia, considerato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu «una palese menzogna», ma confermato dai numeri e dalle esperienze di chi lavora sul campo. Secondo i dati più recenti di Ocha, 641mila persone sono in carestia (fase 5 Ipc), 1,14 milioni in emergenza (fase 4) e 198mila in crisi (fase 3). Gli ultimi dati stimano poi 132mila bambini tra i 6 e i 59 mesi a rischio malnutrizione acuta entro giugno 2026.

«Sono stato in molti scenari di guerra e vedere i bambini morire di fame è la cosa più difficile», dice Monti, e ricorda: «La malnutrizione è una malattia con caratteristiche molto particolari e sbagliare all’inizio il trattamento significa uccidere il malnutrito grave». I più colpiti sono i neonati, nei primi mille giorni di vita, spiega, e il feto dal momento del concepimento. Le conseguenze possono essere perenni: «Avranno meno capacità intellettive e abilità fisiche. E non basta riportare un bambino malnutrito al peso, serve un supporto per anni».

Questa patologia si è iniziata a vedere nella Striscia a partire da dicembre 2023, dice Monti. Emergency segue mensilmente circa cento bambini. In media almeno un minore al giorno arriva in queste condizioni. C’è anche un consultorio per le donne in gravidanza e in allattamento: la carenza alimentare impedisce loro di produrre latte e «quello artificiale se non è buono è pericoloso», spiega. L’ong, quindi, in collaborazione con Unicef, fornisce un supporto di tipo terapeutico.

Il 70 per cento dei gazawi, inoltre, non ha accesso all’acqua potabile. Se l’Oms stabilisce un minimo di 15 litri di acqua a testa al giorno, in media ogni persona a Gaza ne ha tre e «deve decidere se usarli per bere, lavarsi o cucinare», continua Monti.

Gli aiuti umanitari

È il risultato di un assedio, quello israeliano, che decide cosa e come entra, e come viene distribuito. Monti descrive l’impossibilità «non soltanto di trovare cibo al mercato in quantità sufficiente, ma anche di qualità». Mancano carne, uova, latte, frutta fresca, verdura, «tutti alimenti che costituiscono una parte importante della sopravvivenza». E, quando si trovano, i prezzi sono esorbitanti. La farina è arrivata a 40 dollari al chilo, il pesce a 100, un dentifricio a 10 e un litro di acqua a 5. «Un amico un giorno mi ha raccontato di una cena molto costosa cucinata dalla moglie: due uova e due pomodori», dice.

Il costo dei beni varia in base ai flussi di ingresso degli aiuti umanitari e alle zone della Striscia. Se prima del 7 ottobre 2023 entravano circa 800 camion al giorno (da circa 25 tonnellate ognuno), oggi ne entrano circa cento a settimana. È chiaro che le 45 tonnellate a bordo della Flotilla erano una quantità simbolica rispetto alle reali esigenze. Ma l’obiettivo delle 46 imbarcazioni era rompere il blocco con cui Tel Aviv affama la Striscia, che si è intensificato da marzo fino ad arrivare a una chiusura totale per 80 giorni.

Gli aiuti della flottiglia sono nelle mani israeliane e si presume possano essere distrutti perché una filiera non autorizzata. Perché sono moltissimi i beni che l’esercito israeliano rifiuta. Le regole di accesso sono rigide: escludono sedie a rotelle, perché contengono ferro; sacchi a pelo perché di colore verde militare. O, ancora, alimenti ad alto contenuto energetico, come miele, marmellate e biscotti. E avviene nonostante le linee guida internazionali li considerino risorse preziose contro la denutrizione. Lo aveva denunciato Music for Peace, che ha raccolto gli aiuti della Flotilla.

La distribuzione

Ora qualcosa in più sta entrando, «ma vediamo gli effetti con una latenza molto lunga», continua Monti, «ci sono prodotti che non vedevo da mesi, come banane, arance, mele, ma i prezzi sono ancora molto alti». In questa fase, gli aiuti umanitari entrano principalmente dal valico di Karem Shalom. Ma a condizionare l’accesso agli aiuti è anche la modalità di distribuzione. Dallo scorso maggio Israele ha affidato il servizio alla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf).

«I 400 punti di distribuzione dell’Onu sono stati chiusi e ridotti ai quattro della Ghf. Come se si mettessero in fila tutti gli abitanti della città di Bologna», spiega. Lunedì sono state uccise tre persone in coda per gli aiuti. Nella clinica di Emergency sono «aumentate le ferite da arma leggera». Per Monti è un sistema pericoloso, che ha aumentato il divario sociale e la frustrazione, e ha rotto il sistema di solidarietà. Solo i più veloci, sani e forti prevalgono: «La fame e il cibo sono strumento di guerra».

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