«I clienti avevano tutti circa 70 anni, con mia moglie scherzavamo sul fatto che ci dovevamo munire del badile per scavare le fosse!».

Giorgio Locatelli sta parlando del primo ristorante che ha aperto a Londra, si chiamava Zafferano, e nel 1999 ricevette una stella Michelin. In quegli anni però qualcosa stava cambiando, l’età media cominciava ad abbassarsi. Era proprio la cultura della socializzazione e del mangiare fuori che stava mutando nel Regno Unito: «Qui al ristorante prima ci andavano in pochi, i ricchi. Le persone comuni andavano al pub e il mangiare era benzina per poter bere di più».

Locatelli lo sa bene, è la televisione che ha cambiato tutto: «Jamie Oliver è stato il primo a riuscire a far capire ai ragazzi inglesi che invece che andare a ubriacarsi al pub con la tua ragazza puoi fare da mangiare per degli ospiti e intrattenerli in casa».

La televisione poi Locatelli l’ha fatta anche, prima con un programma per Bbc da noi andato su Sky Arte, I buongustai dell’arte, e poi dal 2019 diventando uno dei giudici di Masterchef (la cui nuova edizione è partita il 14 dicembre ogni giovedì su Sky e Now). Anche se poi lui in tv o al cinema preferisce vedere tutto tranne i programmi di cucina. «È troppo vicino a quello che faccio per lavoro. Preferisco mettere su Netflix…».

Cosa? Programmi come Chef’s Table o tutt’altro, roba in cui ci si spara….

Chef’s Table lo conosco, ho visto qualcosa ma sì, preferisco se ci si spara un pochettino. Nemmeno i film o le serie sugli chef riesco a guardare perché mi sembra di essere in cucina, mi riprende quel tipo di foga e tensione. C’è quel film tutto in piano sequenza, Boiling Point, mi sembrava di tornare indietro ai primi anni in cui facevo questo lavoro. A un certo punto ho spento non ce la facevo più. Considera che nemmeno vado nei ristoranti troppo simili al mio, perché mi metto a guardare il servizio, come sono i piatti e mi sembra di essere ancora al lavoro. Non ricordo di aver mangiato in un ristorante italiano a Londra negli ultimi decenni.

Guardavi Masterchef UK quando iniziò?

Nel Regno Unito Masterchef non ha il profilo o i numeri di quello italiano. È sempre stato fatto da questi due giudici: uno è un mezzo ristoratore, neanche uno chef, uno che vendeva i vegetali, e poi da John Torode, che invece è stato chef di un ristorante famosissimo di qui. Era un programma più sfigato. Il nostro è più alto e più bello.

Quindi quello italiano lo seguivi?

Diciamo che avevo sentito parlare di Carlo Cracco e del programma. Qualcuno mi aveva detto che si lanciavano i piatti! Calcola che qui se vola un piatto chiudono il programma, c’è un understatement… Avevo anche visto dei piccoli spezzoni con le scenate che facevano Carlo e Joe. Mi sembrava proprio il passato della cucina, non il presente. Oggi non c’è più quella mentalità della gavetta infinita, dei giovani che devono soffrire per imparare. Per fortuna si cresce diversamente. Immagino che funzionasse a livello televisivo eh, perché ci si identifica.

Erano umiliazioni ma era anche una maniera di spiegare che la cucina è una cosa seria, quello che distingueva il programma era che le umiliazioni erano inferte da personaggi autorevoli a persone che il programma, montando le varie fasi di preparazione, mostrava come più arroganti o spocchiose.

Ecco hai detto bene: che il programma mostrava con il montaggio.

Oggi a Masterchef non si lanciano più i piatti. La decisione di cambiare è stata presa quando sei arrivato tu?

È stata presa recentemente. Cerchiamo di andare in un’altra direzione, rimaniamo molto severi, quello sì, ma ci allontaniamo dai piatti lanciati e dalle umiliazioni. È stato uno degli argomenti delle mie prime discussioni con le persone di Endemol, che il programma lo produce. Gli dissi di non aspettarsi che io facessi Cracco, perché non sono così e non voglio farlo.

Però è come era il mondo della cucina quando tu iniziavi no?

Sì era così. L’alberghiero quando lo facevo io era una roba da bestie, era per gente che non aveva voglia di fare niente. Quando dissi a mia nonna che volevo fare il cuoco si mise a piangere.

Funzionava che chi era presentabile stava in sala e chi non era presentabile veniva nascosto in cucina. Oggi invece io ho a lavorare da me il figlio di uno dei chirurghi più importanti di Londra, me l’ha presentato Roger Federer! Ma ti rendi conto? Il figlio di un chirurgo che vuole fare lo chef!

Il fatto che lo chef sia diventata una professione per persone ambiziose cosa ha cambiato?

Io ho iniziato a lavorare in cucina a 17 anni e non ho cucinato niente che avessi ideato io fino a che non ne avevo 33. Oggi si può prendere una stella anche a 20 anni! I giovani hanno ragione a non voler fare tutta quella gavetta e a non lavorare per chi li maltratta o li sfrutta, ma per qualcuno che li ispiri e che gli insegni qualcosa. Se noi riusciamo veramente a far passare questo messaggio, avremo delle cucine piene di giovani intelligenti invece di avere quelli con gli occhi storti di quando facevo io l’alberghiero.

Ambite ad arrivare verso una visione più morbida del rapporto con gli aspiranti chef?

Quest’anno poi abbiamo insistito molto sulla preparazione di base, non si può cominciare a correre prima di saper camminare, ma la forma non è quella dittatoriale dell’umiliazione.

Alla fine tu come chef vali solo e quanto vale il tuo personale. A quel livello lì, quello stellato, da solo puoi fare da mangiare per un paio di persone e ci metti tutto il giorno.

Secondo te Masterchef e l’attenzione che ha portato alla cucina stellata negli ultimi 20 anni ha finito per cambiare i ristoranti stellati?

Non credo sia poi tanto influente sugli stellati.

La cucina stellata moderna, quella dopo Ferran Adrià, è molto all’avanguardia, è quasi impossibile da ricreare a casa, perché ha bisogno di spazi ed equipaggiamento, è molto tecnica. È nelle famiglie che fa la differenza Masterchef. Ci sono mamme che mi dicono che i figli protestano per come è impiattato quello che arriva a tavola.

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