Dormono nelle tende fuori dalle università per protestare contro il costo degli affitti. Sono andati a spalare nel fango dopo l’alluvione in Emilia Romagna. Si sono insudiciati di fronte al Senato e hanno gridato al Salone contro la ministra Roccella. Hanno meno di trent’anni. Sono nati dopo il crollo della Prima Repubblica, ma la Seconda li ha ignorati, e loro ricambiano. Nella fascia 18-35 il primo partito alle ultime elezioni politiche è stato quello dell’astensione, 37 per cento, un punto in più rispetto alla media nazionale. Eppure, il ministro Lollobrigida gli ha detto di andare a lavorare nei campi anziché stare sul divano col reddito di cittadinanza, Francesco Giubilei li ha invitati a studiare al posto di fare campeggio per un futuro migliore, Ignazio La Russa li voleva vedere volontari in Emilia. Infatti, sono là.

Vita da ventenni. C’è una generazione ignorata, ridicolizzata, in qualche caso criminalizzata, ma che anticipa la politica e si prende il suo spazio nel dibattito pubblico. Senza di loro, non si parlerebbe abbastanza di crisi climatica, di ineguaglianze sociali, di diritti civili.

Azioni di rottura

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Alessandro Rosina, sociologo e coordinatore dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, dice: «Qualche anno fa non ci sarebbe stata la protesta delle tende: gli studenti che non potevano permettersi l’affitto avrebbero rinunciato. Oppure si sarebbero fatti aiutare dai genitori, magari vergognandosene. Ora non si vergognano, non cercano una via di fuga individuale, anzi, pongono questo problema come una questione generazionale: oggi i ventenni vogliono farsi sentire. C’è una spinta a partecipare ma solo se possono portare qualcosa di proprio nel dibattito. Magari anche sbagliando, non hanno più paura di scegliere metodi che saranno criticati».

Vengono da tre anni in cui le loro vite sono state congelate. Stage, corsi, viaggi: la pandemia ha pesato su di loro molto più che su altre fasce d’età. Ma «ha anche dato nuove priorità», spiega Rosina, «facendoli riflettere sul fatto che la vita è una sola». Una risposta al loro bisogno manca ancora: «L’atteggiamento è paternalistico, a partire dal linguaggio: quando sui media si fa un ritratto dei giovani si scrive “i nostri figli”, come se la conversazione riguardasse solo le generazioni mature».

Choosy per sempre

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I “bamboccioni” di cui parlò il ministro Tommaso Padoa-Schioppa nel 2009 sono ormai poco bamboccioni anche solo per ragioni anagrafiche, così come si spera che gli studenti a cui Elsa Fornero nel 2012 consigliava di non essere “choosy” abbiano poi trovato un lavoro che li soddisfi. I dati dicono un’altra cosa. L’orologio della retorica sembra fermo a quel punto, con il fiorire del genere letterario del proprietario di bar che non riesce a trovare dipendenti. In realtà di camerieri ce ne sono: secondo l’Istat la quinta professione più giovane d’Italia dopo atleti, tecnici web, personale non qualificato nei servizi ricreativi e culturali e bagnini. Se sei giovane non fai l’imprenditore o l’amministratore nei settori dei trasporti e delle comunicazioni: l’Istat dice che sono lo 0 per cento. Pochissimi i professori di ingegneria o di architettura.

E i numeri della disoccupazione giovanile sono scoraggianti: è al 22,3 per cento, mentre il precariato interessa il 64 per cento degli under 24 e il 13 per cento dei lavoratori tra i 20 e i 29 anni nel 2021 guadagnava meno di 876 euro al mese, conferma l’Eurostat.

«C’è una narrazione che è sempre colpevolizzante, oltre che molto distante dalla realtà», commenta la sociologa Francesca Coin. «La verità è che c’è un’assenza di investimenti produttivi che dura da tre decenni. L’offerta di lavoro qualificato manca: anche per questo ci troviamo a vedere un aumento del numero di abbandoni dell’università, perché c’è un disinvestimento nel futuro».

Istanze ignorate o peggio

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La distanza da un dibattito pubblico paternalista diventa quasi siderale quando si parla di politica.

Una generazione che non ha conosciuto l’èra delle ideologie, che non ha mai visto il simbolo della Dc su una scheda elettorale, è cresciuta in un’Italia e in un mondo disintermediato e depoliticizzato.

Caterina Cerroni, 31enne, è una di loro. Per la coordinatrice dei Giovani democratici «la sensazione è sempre quella di non essere ascoltati dai partiti, ma ormai è anche peggio. Siamo di fronte alla criminalizzazione del disagio. Penso agli attivisti di Ultima generazione o a chi ha contestato la ministra Roccella. E le istanze legittime vengono sminuite come è avvenuto per gli studenti nelle tende».

Forza e fragilità

A vent’anni è tutto ancora intero, cantava Guccini, e viene da chiedersi quanto interi siano i ventenni di oggi, descritti dagli studi come portatori di una fragilità profonda. Una ricerca recente mette l’Italia agli ultimi posti per benessere mentale in Europa e mostra un tasso di disagio inversamente proporzionale all’età. Questa fragilità però cozza con la percezione del loro essere combattivi e tenaci, nelle rivendicazioni che portano avanti.

Santa Parrello, professoressa di Psicologia dello sviluppo dell’università Federico II di Napoli, sottolinea che la fragilità che vediamo in questo momento è trasversale, caratterizza tanto i giovani quanto i più grandi. Anzi: «È l’insicurezza profonda degli adulti ad averli resi insicuri, anche con la rimozione del conflitto dalla sfera familiare. Le proteste e l’attivismo sono un modo di riappropriarsi del conflitto, e di spostarlo su questioni generazionali, e questo è positivo».

Anche il disagio può diventare un’arma: «Siamo pochi, siamo depressi e passivi», dice Michele Giuli, di Ultima Generazione. «Ma la depressione permette anche scatti di rabbia. Chi arriverà dopo di noi sarà ancora più depresso: e quindi ancora più arrabbiato, e senza rabbia i movimenti sociali non esistono».

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