«I limiti posti dalla globalizzazione, la difficoltà di presentare la nostra visione cristiana del mondo in una cultura diversificata e insensibile al sacro, l’aumento dei divari sociali, le migrazioni, l’intensificarsi della violenza sociale o la precarietà degli alloggi e del lavoro continuano a costituire oggi il banco di prova su cui la chiesa di Madrid è chiamata a confrontarsi con il messaggio evangelico».

Con queste parole si presentava alla sua diocesi come nuovo arcivescovo della capitale spagnola, monsignor José Cobo, nominato il 12 giugno scorso anche se ha preso possesso dell’incarico solo l’8 luglio. Il giorno dopo, il 9 luglio, è stato inserito da Francesco nell’elenco dei 21 nuovi cardinali, in rappresentanza praticamente di ogni continente, pronti a ricevere la mitica “berretta rossa” nel concistoro in programma il prossimo 30 settembre. Il nuovo arcivescovo di Madrid ha solo 57 anni e come altri suoi confratelli nominati di recente ai vertici della chiesa universale, testimonia la volontà del papa di lasciare un’eredità ‘pesante’ al suo successore, chiunque esso sia.

In questo senso va letta pure la nomina di Victor Manuel Fernandez, ex arcivescovo di La Plata, in Argentina, 61 anni, quale prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, anche lui compreso nel gruppo dei nuovi cardinali. Fernandez, considerato il teologo più vicino a Francesco, ha rilasciato nei giorni scorsi diverse interviste nelle quali, pur fra prudenze e distinguo, ha affrontato con una certa disponibilità temi quali la possibile benedizione delle coppie omosessuali e il superamento del celibato obbligatorio in favore di un celibato volontario.

Paolo VI e Fitzcarraldo

Su quest’ultimo aspetto, lo stesso Bergoglio era intervenuto nel marzo scorso, in una lunga intervista rilasciata al settimanale argentino Perfil. «È una possibilità che esiste nella chiesa cattolica», osservava Francesco, «tutta la parte orientale della chiesa cattolica ce l’ha. È una possibilità aperta. Non so se si aprirà o meno, ma è una possibilità». In effetti, aggiungeva, nella storia ci sono state concessioni locali su questo tema anche nella chiesa d’occidente. Arriverà il momento, spiegava ancora, in cui un papa forse cambierà questa norma, in ogni caso, spiegava, lui non ci aveva ancora messo mano, «ma ovviamente si tratta di una questione di disciplina, niente a che vedere con il dogma».

Francesco ha 86 anni e forse non si sente in grado di affrontare in prima persona tutte le battaglie cui è chiamato, d’altro canto in questo decennio di pontificato ha dovuto affrontare un’opposizione senza quartiere da parte dei circoli cattolici più integralisti; tuttavia, è anche possibile che, pur comprendendo la necessità di certi mutamenti, e anzi aprendogli il cammino, il vescovo di Roma sia consapevole di appartenere anche a un’altra epoca, di essersi formato, come lui stesso ha raccontato, a cavallo fra la stagione che ha preceduto il Concilio Vaticano II e quella immediatamente successiva. Per questo, pure, sta scegliendo collaboratori e vescovi di un’altra generazione, qualcuno insomma che possa coadiuvarlo nel lavoro e, al medesimo tempo, portarlo avanti con le proprie forze.

C’è stato, infine, in questi anni, un problema di isolamento di Bergoglio nella torre eburnea del Vaticano; il pontefice spesso è apparso troppo solo nel promuovere i suoi intenti riformatori, più simile a un novello Fitzcarraldo che ai papi scelti di frequente come riferimento: Paolo VI e Giovanni XXIII, appunto i pontefici del Concilio. Di recente, però, prima promulgando la riforma della curia – una delle ragioni di fondo per cui venne scelto nel conclave del 2013 - poi avviando con più decisione un ricambio ai vertici dei dicasteri, questo scoglio sembra finalmente aggirato.

Un collegio bergogliano

 Di certo, ormai il collegio cardinalizio, che dal prossimo 30 settembre conterà su 136 porporati elettori (con meno di 80 anni), è di ispirazione bergogliana, quanto meno nelle nomine. E se è vero che ogni conclave fa storia a sé, difficilmente l’impronta del papa argentino non si sentirà anche sul suo successore. Perché sembra ormai evidente che una parte almeno del processo di riforma avviato da Francesco scivolerà anche sul prossimo pontificato.

D’altra parte, avendo compiuto – almeno potenzialmente – una piccola rivoluzione all’ex Sant’Uffizio (per realizzare la quale ha aspettato la morte di Joseph Ratzinger, per decenni l’inflessibile guardiano della fede), mettendovi a capo un teologo argentino inviso ai tradizionalisti, il papa ha mostrato come anche in questa fase del pontificato non si sia rinchiuso nelle segrete stanze limitandosi alla routine quotidiana.

Al contrario, vi sono diversi segnali che Bergoglio intende rafforzare il processo di riforma avviato, anche se quest’ultimo assomiglia sempre di più alla basilica della Sagrada familia di Gaudì a Barcellona, i cui lavori sembrano non dover finire mai; d’altro canto, come si dice, ecclesia semper reformanda. Riuscirà insomma il papa argentino a “istituzionalizzare” i cambiamenti fin qui introdotti?

Decentrare è governare

Nel 2013, eletto solo da pochi mesi al soglio pontificio, Francesco scriveva nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «Sono innumerevoli i temi connessi all’evangelizzazione nel mondo attuale che qui si potrebbero sviluppare. Ma ho rinunciato a trattare in modo particolareggiato queste molteplici questioni che devono essere oggetto di studio e di attento approfondimento. Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la chiesa e il mondo. Non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione».

Affermazioni dirompenti che sono state prese sul serio – anche troppo secondo il Vaticano – dalla chiesa tedesca che, alle prese con la perdita di credibilità derivante dalla deflagrazione in Germania dello scandalo degli abusi sessuali, ha ritenuto di dover procedere più rapidamente di altri sulla strada delle riforme radicali. Per questo ha messo sul tavolo senza tanti complimenti, il tema dell’esercizio dell’autorità all’interno della chiesa e chiedendo non solo di finirla col clericalismo, ma anche di porre laici e laiche sullo stesso piano dei ministri ordinati; senza contare temi più specifici come il rito della benedizione delle unioni omosessuali e la fine del celibato obbligatorio.

Dal papa e dal Vaticano sono arrivati diversi avvisi e richiami a fermarsi, quantomeno a rallentare, ai vescovi tedeschi, pena il rischio di rottura dell’unità con Roma; tuttavia non si levavamo grida al cielo né partivano scomuniche come sarebbe accaduto in altri tempi.

E del resto la sfida lanciata dal papa alla chiesa, è particolarmente difficile: mantenere l’unità non nascondendo più o, peggio, reprimendo, le differenze. Per questo Francesco ha riformato l’istituto del sinodo dei vescovi trasformandolo da singolo evento puramente consultivo, in processo sinodale le cui deliberazioni possono diventare magistero della chiesa universale (la costituzione apostolica Episcopalis communio è del 2018); un processo, soprattutto, capace di coinvolgere tutto il “popolo di Dio”, a partire dalle chiese particolari, nel confronto sul futuro del cattolicesimo.

Così Francesco ha convocato il sinodo sul tema: «Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione», in pratica un’assise per orientare il cammino delle comunità di credenti in questo tempo. È chiaro però che un avvenimento di tale portata finisce per parlare a tutti, ben oltre i confini del popolo dei fedeli, sia per le questioni che affronta, sia per come lo fa e sia per come si mette in dialogo col mondo.2

Unità e diversità

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Padre Giacomo Costa, gesuita, consultore della Segreteria del Sinodo, così descrive sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, il senso della consultazione voluta dal vescovo di Roma: «Mantenere aperto uno spazio di incontro e dialogo tra le molte differenze che attraversano la chiesa. La varietà di vocazioni, carismi e ministeri, la pluralità di lingue, culture, espressioni liturgiche e tradizioni teologiche, così come le differenze di età, sesso e condizione sociale, sono la grande ricchezza che la fase della consultazione ha messo in evidenza, insieme a un radicale desiderio di comunione. Il compito dell’Assemblea sinodale…è porsi come spazio di discernimento su come sia possibile continuare a camminare insieme senza mortificare la diversità né lasciarla scadere nella frammentazione».

Toccando lo stesso aspetto, mons. Timothy Costelloe, arcivescovo di Perth, Australia, e uno dei nove presidenti dell’assise che guideranno il dibattito nella fase finale del sinodo, lo scorso 20 aprile, in Vaticano spiegava: «Una delle cose più importanti che stiamo sperimentando in questo viaggio verso una maggiore e più profonda esperienza di sinodalità è che riconosciamo e celebriamo la grande diversità che è già una realtà nella chiesa; stiamo in realtà sperimentando una profonda unità che non solo non si fonda sull’uniformità, ma che anzi ci invita ad abbandonare qualsiasi ricerca di una rigida uniformità».

«Ciò indica un fatto», aggiungeva l’arcivescovo australiano, «ovvero che i principi universali devono essere “incarnati” nel contesto della cultura e della situazione locali. Questo è un punto chiave: ci sono principi universali (e in questo c’è una forma di uniformità), ma i principi devono essere incarnati nei contesti locali».

Centro e periferia

E qui, in fondo, c’è stata la prima grande sorpresa: quando finalmente una buona parte della chiesa abituata al silenzio o tutt’al più a esprimere privatamente dissensi e dubbi, ha preso la parola attraverso il sinodo convocato dal papa, si è scoperto che quasi i temi della riforma interna della chiesa, a cominciare dalla questione femminile, dalla richiesta di mandare definitivamente in soffitta un modello gerarchico e organizzativo clericale nelle forme e maschile nel genere, erano condivisi ad ogni latitudine e declinati appunto secondo differenti sensibilità.

Insomma, la voce petulante di chi invocava la messa in latino e attribuiva la fine della cristianità alla dismissione di un fondamentalismo oscurantista che tutto teneva insieme, si perdeva fin quasi a rendersi irriconoscibile nel momento in cui la voce delle periferie arrivava fino a Roma; se questo metodo metterà radici, allora certamente l’azione del papa argentino lascerà il segno, ma è ancora presto per dirlo.

In ogni caso, di questo rilevante rovesciamento nel rapporto fra centro e periferie, fra Vaticano e chiese locali, ne sono buona testimonianza le numerose sintesi dei sinodi nazionali poi confluite nelle relazioni continentali e infine nell’instrumentum laboris, il documento che farà da base alla fase finale dell’assise che si svolgerà in due sessioni: la prima nell’ottobre 2023 e la seconda nell’ottobre del 2024. 

La questione femminile banco di prova

Si pensi, per esempio, a quanto veniva riportato nella sintesi del percorso sinodale in Nuova Zelanda, dove fra le altre cose si leggeva: «Il ruolo e la condizione delle donne hanno inevitabilmente interessato molte persone. Le aspettative sociali sono cambiate e le donne ricoprono ruoli di leadership chiave sulla scena nazionale e mondiale. Si è sentita fortemente la necessità che la chiesa tenga conto della loro saggezza, del loro intuito e delle loro capacità di leadership, garantendo loro una partecipazione paritaria nei ruoli decisionali e liturgici chiave».

«Sia gli uomini che le donne», proseguiva il testo, «hanno parlato spesso del fatto che alle donne viene negata la piena partecipazione ai ruoli sacramentali e di governo…È stato espresso sostegno per l’inclusione delle donne nel diaconato e per la loro ordinazione sacerdotale. Questa mancanza di uguaglianza per le donne all’interno della chiesa è vista come un ostacolo per la chiesa nel mondo moderno».

Va anche detto che considerazioni simili, certo meno esplicite nelle richieste concrete, si sentono ormai anche al vertice dell’istituzione ecclesiale. Il cardinale della Corea del Sud Lazzaro You Heung-sik, prefetto del dicastero per il Clero (incarico che ricopre dall’agosto del 2021), infatti, in un’intervista dello scorso aprile all’Osservatore romano, rilevava come: «Talvolta diamo ancora l’impressione di essere un universo maschilista e, per questo motivo, la società spesso ci giudica male. Grazie a Dio però, anche grazie ai percorsi teologici e pastorali su questo tema e soprattutto grazie agli impulsi e alle scelte di papa Francesco, siamo in cammino».

«Dobbiamo trovare strade buone e valide», ragionava il cardinale, «per superare alcuni aspetti canonici riguardo ai ruoli di governo e di responsabilità e, soprattutto, vincere le nostre resistenze pastorali quando si tratta del normale coinvolgimento delle donne nella vita della chiesa. Personalmente, come ho raccontato anche in un libro, penso che il cammino si fa con gesti concreti: nominare donne per incarichi di governo, nominare lettrici e accolite. Io avevo inserito una donna nell’équipe del seminario e incoraggio scelte di questo tipo».

Si tenga presente, per capire il sommovimento in atto, cos’era la discussione interna alla chiesa 15 o 20 anni fa quando tutto questo era semplicemente inimmaginabile. Per tale ragione è di particolare importanza il fatto che il papa abbia deciso di far votare anche le donne al sinodo in corso, 54 di loro, laiche e religiose, si pronunceranno infatti sui documenti finali dell’assise che vedrà per la prima volta, accanto ai padri sinodali, anche le madri (in totale i partecipanti al sinodo uomini e donne con diritto di voto saranno circa 360), senza contare quanti e quante prenderanno parte ai lavori senza poter partecipare alle votazioni.

Certo, non è detto che basti un sinodo a fare primavera, d’altro canto fu lo stesso Francesco a frenare le proposte di riforma avanzate nel 2019 del sinodo per l’Amazzonia (da lui stesso convocato) che chiedeva l’ordinazione di uomini (diaconi permanenti) sposati per sopperire alla carenza di sacerdoti in America Latina; le pressioni dell’ala conservatrice allora, va detto, furono fortissime arrivando di fatto a minacciare uno scisma.

Ma il papa della misericordia, della chiesa che accoglie i peccatori, che non vuole condannare i divorziati risposati, che vuole parlare con tutti, il papa che ha promosso l’idea suggestiva di una chiesa ospedale da campo, aperta dunque all’umanità ferita senza distinzioni di sorta, una chiesa capace di mettersi in discussione, di fare autocritica e di chiedere scusa, non può pensare che su questa strada possa incontrare solo consensi; bisognerà dunque vedere se Francesco riuscirà a passare dalle aperture concesse dall’alto secondo il principio – per dirla laicamente – della monarchia illuminata, o se nuovi ordinamenti, col giusto tempo, possano prendere forma nella chiesa.

Magistero e riforma

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Infine, è certamente vero che il Vaticano uscirà comunque trasformato dal ciclone Bergoglio, si pensi solo al lavoro di messa a regime e di modernizzazione delle finanze vaticane, della gestione amministrativa in generale, dell’amministrazione della giustizia, un impegno che continuerà anche nei prossimi anni ma di cui sono visibili le basi normative già da oggi.

È anche vero, tuttavia, che tutto questo non può essere compreso fino in fondo se non si tiene conto del magistero del papa nel suo complesso. In sostanza, lo sforzo riformatore promosso da Bergoglio pur fra mille contraddizioni, acquista senso quando la chiesa si rimette in ascolto del “grido dei poveri”, quando pone la questione della salvaguardia del creato che appartiene a tutti e soprattutto alle future generazioni, quando chiede il realismo della pace, o si pone dalla parte dei migranti la cui condizione sembra riassumere molte delle crisi vissute dall’umanità contemporanea.

In questo senso la sfida è aperta: Francesco ha cambiato l’ordine delle priorità pastorali, diciamo pure dell’annuncio evangelico; allora, se il suo messaggio si incardinerà nella chiesa del terzo millennio probabilmente anche le riforme istituzionali avranno la spinta necessaria per arrivare in porto.   

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