I minori sfruttati online dai loro stessi genitori per fare soldi attraverso campagne pubblicitarie sui social network. È un fenomeno più che inquietante quello su cui lancia l’allarme Terre des Hommes in un’indagine realizzata insieme con Iap, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iap) e l’Alta Scuola in media, comunicazione e spettacolo (Almed) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, con il supporto dell’avvocata Marisa Marraffino, esperta di diritto dei media digitali, e con la partnership tecnica di Not Just Analytics.

«Quando un genitore trasforma il proprio figlio in parte di un’attività commerciale, assume di fatto un doppio ruolo: quello di datore di lavoro e di genitore, con il rischio di compromettere la relazione di fiducia e sicurezza su cui si fonda l’infanzia», afferma Federica Giannotta, responsabile advocacy e programmi Italia di Terre des Hommes.

«Per un bambino, soprattutto nei primi anni di vita, la perdita di spazi protetti e la messa in scena di momenti intimi possono minare il senso di protezione e la capacità di distinguere la realtà dalla finzione. Senza contare che la presenza online li espone a potenziali rischi di adescamento e pedopornografia, rendendo facilmente reperibili elementi utili a identificare la loro dimora e le loro abitudini. È per questo che chiediamo una regolamentazione capace di tutelare il diritto dei più piccoli a crescere in un ambiente sicuro, autentico e libero da pressioni esterne».

In dettaglio, l’indagine ha preso in esame 20 profili di cosiddetti “family influencer” – ossia genitori che condividono la loro vita quotidiana online insieme con i figli – e oltre 1.300 contenuti social. È Instagram la piattaforma più usata: il 91 per cento dei post presi in esame fa capo al social della galassia Zuckerberg, il restante 9 per cento è su TikTok. Ebbene, i minori appaiono nel 50 per cento dei contenuti organici (quelli in cui non ci sono di mezzo attività pubblicitarie) ma nel 25 per cento di quelli sponsorizzati, quindi uno su quattro. E addirittura in un terzo circa dei contenuti pubblicitari; i minori sono parte attiva dell’advertising presentando prodotti e usati per promuoverne l’acquisto: si va dai prodotti di bellezza a quelli alimentari, dai film ai parchi divertimento, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, dai libri ai prodotti per la pulizia della casa, e nella lista ci sono persino gli insetticidi.

Bimbi in vetrina

Il tutto quasi sempre “in chiaro”, ossia senza alcuna tutela della privacy, considerando che i bambini appaiono in video con i loro volti: nei contenuti organici sono mostrati di spalle o con i volti pixellati o coperti da emoticon per non renderli riconoscibili solo nel 7 per cento dei casi, e si scende al 2 per cento nei contenuti pubblicitari. Dall’esame emerge inoltre che nel 29 per cento dei post i minori sono esposti a rischi elevati sul fronte della privacy e del conseguente utilizzo delle immagini a fini pedopornografici da parte di soggetti terzi: i bambini sono mostrati in momenti intimi come il bagnetto e il cambio del pannolino, nonché ripresi in momenti di difficoltà come il pianto o crisi di rabbia.

E i più esposti online sono i minori fino a 5 anni, protagonisti dell’80 per cento dei post e quindi non in grado in alcun modo di esprimere il proprio consenso, né di comprendere che tipo di utilizzo si fa della propria immagine. Il loro destino è deciso dalle logiche di marketing. «I social media hanno creato opportunità lavorative prima inedite che consentono di trovare nuovi equilibri fra lavoro e vita privata, come è avvenuto nel caso dei family influencer e – più in generale – di influencer e creator», spiega Elisabetta Locatelli, ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. «Ciò però rischia di comportare, come emerso nei dati di ricerca, una sovraesposizione dell’infanzia e dell’adolescenza, di non definire in modo ottimale i confini fra vita personale e professionale o di non tutelare adeguatamente i diritti».

La necessità delle regole

La situazione dunque sta più che sfuggendo di mano nonostante i tentativi di arginare i rischi: il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale di Iap prevede all’articolo 11 «che debba essere posta particolare cura riguardo a messaggi che si rivolgono ai minori o che possano essere da loro ricevuti, assicurandosi nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente», spiega il segretario generale dell’Istituto Vincenzo Guggino nel ricordare il protocollo siglato con l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza per rafforzare le tutele.

A luglio scorso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha approvato il Codice di condotta per gli influencer – che all’articolo 3 dispone il divieto di arrecare pregiudizio fisico o morale ai minori – nonché la creazione di un elenco degli influencer rilevanti ossia quelli con 500.000 follower o 1 milione di visualizzazioni medie mensili su almeno una delle piattaforme di social media o condivisione di video utilizzate.

Il web form per l’iscrizione è stato pubblicato dall’Autorità il 6 novembre.

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