Dopo tre anni la procura di Bergamo ha chiuso l’inchiesta sulla gestione della prima fase della pandemia in Lombardia e non ha risparmiato nessuno. La lista va da Giuseppe Conte, a Roberto Speranza, da Attilio Fontana a Giulio Gallera.

Nomi che spiccano più di altri nell’elenco dei 19 indagati, che chiama in causa anche i vertici istituzionali della sanità regionale e nazionale.

Nel comunicare la chiusura delle indagini la procura precisa che non si tratta di «un atto di accusa», seppure poche settimane fa il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani durante l’apertura dell’anno giudiziario avesse detto che «le indagini hanno accertato gravi omissioni nella valutazione dei rischi pandemici e nella gestione della prima fase della pandemia».

Gli indagati

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La guardia di Finanza ha così avviato le notifiche degli avvisi di conclusione delle indagini per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio. Oltre all’ex presidente del Consiglio, Conte, all’ex ministro della Salute, Speranza, al presidente leghista della regione Lombardia, Fontana, troviamo pure l’ex assessore al Welfare, Gallera che con Fontana ha gestito quella stagione. Con Gallera è indagato il suo ex direttore generale Luigi Cajazzo con l’ipotesi di epidemia colposa per la mancata applicazione del piano pandemico regionale.

Poi c’è Ranieri Guerra, ex direttore generale dell’ufficio di prevenzione del ministero della Salute. Sono indagati anche diversi dirigenti del ministero della Salute che hanno gestito quella fase, come Claudio D’Amario, Francesco Maraglino e Giuseppe Ruocco.

E il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro; il coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo; l’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli e l’allora direttore dell’istituto Spallanzani, Giuseppe Ippolito.

Inoltre nell’elenco ci sono anche i direttori generale e sanitario (Francesco Locati e Roberto Cosentina, quest’ultimo ora in pensione) dell’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est, e Giuseppe Marzulli, ex direttore medico dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo.

A loro i pm contestano di non aver eseguito le tac, in mancanza di tamponi, su almeno una ventina di pazienti ricoverati per diagnosticare il Covid-19.

Su Marzulli la scelta della procura ha sorpreso molti: fu il primo a rendersi conto della situazione fuori controllo nel nosocomio, a opporsi alla riapertura del pronto soccorso e a portare personalmente la sera del 23 febbraio una dozzina di tamponi di cui la struttura era completamente sprovvista. 

«Tutto ciò non ci restituisce i nostri cari e non cancella le lacrime che abbiamo versato, ma onora la memoria di chi ha pagato in prima persona. A noi che restiamo dà la forza per continuare a combattere con ancora più determinazione le nostre battaglie», hanno dichiarato dal comitato “Sereni e sempre uniti” dell’associazione familiari vittime Covid-19.

Conte e Fontana, stessi reati

Conte e Fontana sono accusati del «delitto» di epidemia colposa aggravata, come emerge dall’atto di conclusione indagine della procura, del medesimo reato.

Fontana «in cooperazione con gli indagati e con Giuseppe Conte e in qualità di presidente della regione Lombardia ha omesso di adottare misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione e in particolare le misure corrispondenti all’istituzione di una zona rossa nei comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indice di contagio avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in gravi difficoltà per il numero di casi registrati e per il numero di contagi tra il personale sanitario».

Una condotta che, secondo gli inquirenti, «cagionava così la diffusione dell’epidemia da Sars-Cov-19 in Val Seriana mediante un incremento stimato non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo, di cui 55 nel comune di Alzano Lombardo e a 108 a Nembro, rispetto all’eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020». 

Conte e Fontana dovranno difendersi inoltre da un’altra accusa: omicidio colposo, per «aver cagionato la morte» di un lungo elenco di vittime uccise dal virus. I pm contestano lo stesso reato all’ex ministro Speranza, ad alcuni membri del Cts e ad altri dirigenti sanitari e del ministero della Salute. 

La parsimonia di Conte

(AP Photo/ Francisco Seco, Pool, File)

Per l’ex presidente Conte, oggi capo dei Cinque Stelle, e l’ex ministro Speranza è scontata la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri di Brescia. Nei mesi scorsi Domani aveva rivelato alcuni documenti esclusivi finiti nel fascicolo dell’inchiesta.

Tra questi rientra il verbale del Comitato tecnico scientifico datato 2 marzo 2020 nel quale all’allora presidente del consiglio Conte veniva illustrata da Brusaferro la drammatica situazione epidemiologica della Val Seriana.

In quella riunione, che doveva rimanere riservata, veniva avanzata dai tecnici la richiesta al governo di chiudere urgentemente in una zona rossa i comuni di Alzano Lombardo e di Nembro. La risposta di Conte in quel verbale redatto dall’allora coordinatore del Cts, Miozzo, fu che «la zona rossa va usata con massima parsimonia perché ha costo sociale, politico, non solo economico, molto alto. Occorre indicare misure che siano anche sostenibili, fattibili sul piano operativo. Decide di rifletterci».

L’inchiesta durata quasi tre anni è stata coordinata dalla procuratrice aggiunta Maria Cristina Rota e dai detective della Guardia di finanza. L’attività dei finanzieri si è concentrata sulla gestione delle prime settimane della pandemia.

Nello specifico i pm hanno raccolto documenti, chat, verbali e ascoltato centinaia di testimoni con l’obiettivo di far luce sul mancato aggiornamento e la mancata attuazione dei piani pandemici a livello nazionale e regionale, ma anche sulla decisione di non istituire la zona rossa nei comuni di Alzano lombardo e Nembro a fine febbraio 2020, focolai mortali.

Nella Bergamasca l’eccesso di mortalità fu di 6.200 persone rispetto alla media dello stesso periodo degli anni precedenti.

Il nostro giornale aveva pubblicato altri documenti finiti nel fascicolo dell’inchiesta. Come la mail del 26 febbraio 2020 inviata da Carlo Alberto Tersalvi, all’epoca direttore sanitario dell’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo, e diretta ai vertici della sanità regionale che dava conto della preoccupante diffusione dei contagi nell’area della Val Seriana.

A quella mail, però, non è seguita alcuna decisione da parte dell’allora giunta guidata dal presidente leghista Fontana.

Anzi, il 28 febbraio il presidente scriveva una mail alla protezione civile per chiedere il mantenimento delle misure blande in vigore fino a quel momento, non chiedendo dunque la zona rossa ma la proroga di una zona gialla. Un ritardo che potrebbe aver contribuito alla rapida diffusione dei contagi nella zona.

Le contraddizioni di Fontana

(AP Photo/Luca Bruno)

Sul ruolo di Fontana e delle resistenze a chiudere l’area della provincia di Bergamo epicentro della pandemia non ci sono solo le mail pubblicate da Domani e agli atti dell’indagine.

C’è anche il verbale di sommarie informazioni del 29 maggio 2020 in cui Fontana, ascoltato dai pm titolari del caso, ripercorre quei giorni di fine febbraio e le settimane successive di marzo.

Un documento, ottenuto dal nostro giornale, in cui il presidente (rieletto alle ultime regionali) risponde alle domande dei magistrati e sulla zona rossa per Alzano e Nembro dice: «Noi credevamo nella realizzazione della zona rossa, che poi sarebbe stata utile non so dire, però a Codogno (dove si è verificato il primo contagio, provincia di Lodi, ndr), aveva funzionato. La nostra proposta è stata quella di istituire la zona rossa, il 3 marzo abbiamo fatto presente al Cts (comitato tecnico scientifico) quali erano le nostre indicazioni».

Fontana, dunque, riferisce ai pm che la regione aveva chiesto la zona rossa il 3 marzo, ma agli atti non c’è alcuna istanza formale.

Curioso, però, che appena 4 giorni prima Fontana avesse scritto una mail con indicazioni opposte a quanto dichiarato davanti ai pm: si tratta della mail del 28 febbraio 2020, in cui chiede di mantenere le misure blande della settimana precedente, consapevole che i contagi tra Nembro e Alzano Lombardo stessero crescendo in maniera esponenziale.

La mail del 28 è citata espressamente dai magistrati nel loro atto di conclusione delle indagini. Al presidente Fontana contestano il reato di epidemia colposa aggravata con la cooperazione dell’ex presidente del Consiglio Conte e tra le motivazioni indicano la scelta di non aver chiesto la zona rossa in quel messaggio di posta elettronica.

La colpa del leghista è consistita, quindi, «nell’aver richiesto con due distinte mail del 27 e del 28 febbraio il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in regione, non segnalando alcuna criticità relativa alla diffusione del contagio nei comuni della Val Seriana, nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indicatore di diffusione (R0) avesse raggiunto valore pari a 2», ossia il virus era fuori controllo.

Il racconto ai pm di Bergamo del presidente Fontana prosegue così: «La nostra indicazione al Cts era di ricomprendere nella zona rossa anche il comune di Albino (vicino a Nembro e Alzano, ndr). La nostra non era una scelta politica, ma tecnica. Ricordo che fu Demicheli che ci disse che nella zona di Alzano stava nascendo un focolaio».

Demicheli è Vittorio Demicheli, a capo della task force di regione Lombardia e direttore sanitario dall'Agenzia per la Tutela della Salute per l'Area Metropolitana milanese (Ats).

Anche lui è stato ascoltato dai magistrati bergamaschi: nel verbale Demicheli ha spiegato che «nella prima settimana noi tecnici spingevano per creare le zone rosse…per Bergamo noi abbiamo segnalato il focolaio», e poi aggiunge, «non ricordo per quali motivi non fu istituita la zona rossa in Val Seriana…l’impressione che ho avuto è che ci fossero interlocuzioni a noi precluse tra la regione e le autorità centrali».  

«Ritornando alla zona rossa di Alzano, quando avete iniziato a parlarne?», chiedono i pm a Fontana.

«Credo il 2 marzo, su indicazione del dott. Demicheli», ha risposto Fontana in procura. «Quindi il 3 marzo avete chiesto l’istituzione della zona rossa?», chiedono i pm.

«No, abbiamo detto di valutare se alla luce degli elementi forniti vi erano le condizioni per istituirla», ribatte il presidente, che così prova a scaricare le responsabilità su altri.

Un’altra incongruenza nella versione di Fontana emerge dalla risposta alla domanda se regione fosse in possesso di informazioni sui contatti ad Alzano tra gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo. «Non lo so, non è un aspetto che abbiamo approfondito».

In realtà regione Lombardia aveva sia le proiezioni dei contagi sia i dati reali sulla crescita notevole di nuovi infetti già il 28 febbraio, il giorno in cui Fontana invia una mail a Roma nella quale non chiede la zona rossa ma solo il mantenimento delle misure in vigore.

Quello stesso giorno regione Lombardia aveva ricevuto i grafici di Stefano Merler, matematico della fondazione Bruno Kessler di Trento, membro sia della task force lombarda sia del Comitato tecnico scientifico istituito a Roma.

In quei grafici veniva indicato un R0 (indice di trasmissione di una malattia infettiva non controllata) superiore a 2, ovvero oltre la soglia di allerta.

In provincia di Bergamo, secondo Merler, l’R0 aveva un potenziale fino a 3,17, soglia ampiamente superata nel mese di marzo 2020 quando l’indice di trasmissione a Bergamo dopo le chiusure tardive toccherà quota 4.5.

Quindi la regione era a conoscenza degli scenari catastrofici in caso di assenza di misure di contenimento. Eppure nulla ha fatto.

Fontana si difende e contrattacca: «È veramente vergognoso che una persona sentita all’inizio dell’indagine come testimone, scopra dai giornali di essere stata trasformata in indagato».

E sulle accuse ha replicato: «Se io avessi anche emesso l’ordinanza, con chi l’avrei fatta eseguire? Io non ho a disposizione né l’esercito, né i Carabinieri, né la Guardia di Finanza».

Le pressioni degli industriali

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I magistrati, infine, hanno chiesto a Fontana se avesse mai avuto interlocuzioni con il mondo confindustriale sulla possibile istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro. «Sì, ci sono anche i verbali del tavolo dello sviluppo», è stata la risposta del presidente.

I pm, tuttavia, fanno notare a Fontana che Marco Bonometti, all’epoca presidente degli industriali lombardi, aveva dichiarato che «sia lui che la regione Lombardia erano contrari alla zona rossa» e che avevano avuto un confronto e condiviso la decisione.

Il presidente tiene il punto: «Sulla zona rossa di Alzano e Nembro non ho mai parlato con nessun rappresentante di Confindustria e non mi sono state rappresentate loro esigenze».

C’è però un verbale agli atti con le dichiarazioni di Bonometti (non indagato) che in parte smentisce Fontana.

«Ha mai chiesto al presidente della regione Lombardia di farsi parte attiva a non istituire zone rosse ma solo di limitare le chiusure delle attività non essenziali?», gli hanno chiesto gli inquirenti.

«Sì, gliel’ho chiesto, Regione Lombardia era d’accordo con noi nel non istituire zone rosse ma nel limitare le chiusure alle sole aziende non essenziali», ha risposto il capo degli industriali, che nella stessa audizione davanti ai pm ha aggiunto: «La mia posizione è stata quella che la zona rossa nella bergamasca non risolveva il problema, perché a mio parere andava chiusa l’intera Lombardia. Ero contrario all’istituzione della zona rossa nella bergamasca. Ho detto di salvaguardare le filiere per le aziende essenziali».

Tra Fontana e Bonometti c’è stata anche una telefonata l’8 marzo. Lo conferma Bonometti e lo racconta un altro testimone. Hanno parlato della zona rossa di Alzano e Nembro? «Non mi pare di aver parlato di questo», ha detto Bonometti.

Le mosse di Confindustria

A rivelare alla procura ulteriori dettagli di quei giorni convulsi in cui chi governava doveva decidere se chiudere tutto o lasciare così com’era, è Pierino Persico (non indagato), potente industriale del settore metallurgico e nautico a Nembro, una delle sue aziende produce gli scafi della barca a vela Luna Rossa.

«Bonometti mi disse che come Confindustria si stava adoperando per assicurare, pur nel contesto zona rossa, comunque il regolare svolgimento delle attività produttive delle aziende con sede a Nembro e Alzano», ha detto Persico, che ha aggiunto: «Non ho mai fatto pressioni per non far istituire la zona rossa. Ai miei interlocutori ho chiesto se era possibile lasciare la zona industriale fuori dalla zona rossa».

A tal proposito il capo degli industriali lombardi, Bonometti, ha ricordato agli inquirenti: «Rammento che Persico mi ha parlato delle sue preoccupazioni circa la produzione di qualcosa per la Jaguar».

Così mentre gli industriali manifestavano preoccupazioni per le ripercussioni negative sulla produzione e la politica nicchiava sulla zona rossa in Val Seriana, le persone continuavano ad ammalarsi.

In poche settimane avverrà un’ecatombe, che si sarebbe potuta evitare, come accertato dalla consulenza tecnica del professore Andrea Crisanti, microbiologo, oggi senatore Pd, ingaggiato dalla procura per capire quante vite avrebbe salvato la zona rossa in provincia nella bergamasca: 4.148 vittime in meno se istituita il 27 febbraio, 2.659 se fosse stata applicata il 3 marzo.

Questa la drammatica risposta contenuta nel documento che inchioda la politica alle sue responsabilità.  

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