Nel 2021 ha generato più CO2 dell’intera Spagna, mentre le sue emissioni di metano hanno superato quelle prodotte da tutto il bestiame di Francia, Germania, Canada e Nuova Zelanda messe insieme.

Parliamo di Jbs, un colosso della carne che rappresenta il lato oscuro di una catena produttiva già accusata di inquinare il pianeta. Secondo dati Fao, il 14,5 per cento di tutti i gas serra generati dall’uomo sono attribuibili all’allevamento, settore che emette, appunto, non solo anidride carbonica (CO2), ma anche metano (CH4) e protossido di azoto (N2O), gas che svolgono un ruolo rilevante nel determinare il riscaldamento globale.

Del citato 14,5 per cento, in particolare, sono i bovini a determinare la percentuale maggiore, a causa del consumo di suolo per produrre mangimi e della fermentazione enterica (cioè dei gas intestinali) dei ruminanti, che rappresentano rispettivamente il 45 e il 39 per cento delle emissioni totali della zootecnia.

L’assenza di trasparenza

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Basterebbero già questi dati “gassosi” a offuscare, come una nuvola di polvere, l’immagine del più grande produttore di carne al mondo. Ma in realtà la società brasiliana Jbs non ha mai fatto della trasparenza uno dei suoi punti forti. La carne è debole, come è noto, e dunque non c’è da stupirsi se i padroni della Jbs, Joesley e Wesley Batista, figli di quel José Batista Sobrinho che ha costruito un impero a partire da una macelleria inaugurata nel 1953, si inteneriscono quando si tratta di sostenere la propria attività. Per ingraziarsi più di 1.800 politici brasiliani, per esempio, hanno elargito fino al 2017 altrettante bustarelle, per le quali la J&F Investimentos, azionista di controllo della Jbs, ha accettato di pagare la multa record di 3,2 miliardi di dollari e i Batistas hanno passato qualche mese in carcere.

Alla madre di tutte le sanzioni sono seguite una Seconda ammenda da 256 milioni di dollari inflitta dal dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti nel 2020 per violazioni del Foreign Corrupt Practices Act e un accordo con l’americana Securities and Exchange Commission (Sec), per il quale J&F Investimentos dovrà pagare circa 27 milioni di dollari per evitare una condanna per corruzione (in pratica i Bastistas avrebbero acquisito con fondi ottenuti in modo “fantasioso” l’americana Pilgrim’s Pride Corporation, alterandone poi la contabilità). 

Eppure, come ha rilevato il settimanale Bloomberg, meno di quattro anni dopo essere finiti in carcere per aver corrotto migliaia di politici, Joesley e Wesley sono liberi e detengono partecipazioni societarie per 28 miliardi di dollari, mentre la loro azienda ha triplicato il suo valore, si è estesa in 20 paesi e ormai controlla un quarto della lavorazione della carne bovina negli Usa (nel loro carnet compare pure un’azienda italiana, la Rigamonti, noto marchio di bresaola, la cui materia prima, però, per almeno metà proviene dal Brasile anziché dalla Valtellina).

Anche se dal momento della condanna i due Batistas sono stati estromessi dalle cariche ufficiali, l’opacità societaria è rimasta, tanto negli affari ad alto livello quanto nell’operatività quotidiana. Così, anche se nel novembre 2021 Jbs ha firmato un impegno anti deforestazione addirittura alla Cop26, il vertice climatico internazionale di Glasgow, nello stesso anno la società avrebbe acquistato oltre un terzo del suo bestiame da allevamenti responsabili della deforestazione illegale, come denunciato da Cash Cow, un’inchiesta realizzata nel giugno 2022 dalla ong Global Witness. Questa indagine è in linea con un precedente rapporto di Global Witness, che ha dimostrato come Jbs abbia acquistato bestiame da ben 327 allevamenti sorti disboscando l’equivalente di decine di migliaia di campi da calcio di foresta amazzonica.

La beffa dei green bond

E di recente al danno (ambientale) si è aggiunta la beffa: l’azienda probabilmente più responsabile della deforestazione di qualsiasi altra al mondo, nel 2021 ha raccolto due miliardi di dollari emettendo dei green bond. Ovvero obbligazioni collegate alla promessa di Jbs di ridurre la sua impronta climatica e diventare net-zero entro il 2040.

A questo punto è stata l’ong Mighty Earth a denunciare il gigante della carne bovina alla citata Sec americana, accusando i brasiliani di ingannare gli investitori. Jbs ha replicato di aver chiarito al mercato che i suoi bond erano limitati a riduzioni di emissioni nei cosiddetti ambiti 1 e 2 (i quali tengono conto delle emissioni dirette e indirette da fonti energetiche), mentre «non era possibile includere l’ambito 3 a causa di limitazioni di calcolo».

Ma le emissioni “scope 3” possono costituire oltre l’80 per cento dell’impatto ambientale complessivo di un’azienda, includendo elementi a monte e a valle della catena di approvvigionamento, quali l’acquisto di beni e servizi, la lavorazione dei prodotti venduti, il loro trasporto e la distribuzione, i rifiuti generati nell’ambito delle attività operative.

E per quanto misurare le emissioni scope 3 non sia facile, secondo Fabio Alperowitch, fondatore di Fama Investimentos, gestore brasiliano di fondi specializzati in investimenti sostenibili, «Jbs si nasconde dietro questa complessità per fare quello che vuole, che si tratti di non riferire le sue emissioni o di attenersi alla metodologia che le si addice meglio». In attesa della decisione della Sec sui presunti green bond, insomma, per Jbs la regola resta una sola: meglio guadagnare oggi che pensare al domani (del pianeta). Come direbbero i latini (americani), carne diem.

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