Ricordo perfettamente la prima volta in cui ho sentito parlare di Julian Assange. Era la primavera di quattordici anni fa, sedevo tra i banchi di una lezione di giornalismo all’università mentre sullo schermo leggevo della pubblicazione di “Collateral Murder”, un video che mostrava un bombardamento nella periferia di Baghdad immortalato direttamente dalle telecamere dell’elicottero Apache che lo stava perpetuando.

In quella storia c’era tutto uno Zeitgeist: un oscuro sito Internet, WikiLeaks, responsabile della pubblicazione del video e di molto altro, la cultura hacker e le lotte per la libertà di Internet, il risentimento verso uno dei conflitti bellici più amorali della storia, e il giornalismo nella sua accezione più semplice.

Nei quattordici anni seguenti ho intervistato Julian Assange due volte e Chelsea Manning, la fonte di quel video. Dopo la sua liberazione ho pubblicato due libri sul tema e scritto infinite pagine sulla continua attualità di quella questione.

Lo dico non per parlare del mio lavoro, ovviamente, ma per sottolineare come il “caso Assange” abbia occupato buona parte della mia vita adulta, senza andarsene mai, complicandosi progressivamente e in direzioni sempre più fosche.

Julian Assange ha trascorso la sostanziale totalità dei quattordici anni privato della sua libertà e della sua salute e non è mai stato così vicino dall’essere estradato negli Stati Uniti dove, da giornalista, è accusato di spionaggio proprio a causa delle pubblicazioni di WikiLeaks del 2010.

L’orologio del “caso Assange” è infatti fermo e cristallizzato nel 2010, mentre quello del pianeta e della politica è avanzato di corsa e in mille direzioni. Nel frattempo, il “caso Assange” è diventato uno spettro nella coscienza delle democrazie che riappare con sempre meno visibilità e attenzione e spesso solo in seguito alla notifica di sviluppi giudiziari sempre più kafkiani che emergono dai tribunali di Londra, dove si sta giocando una delle partite più cruciali sul futuro della libertà di stampa.

Una partita che si gioca da anni sul corpo di Assange e che determinerà se sia ritenibile accettabile, in Europa e negli Usa, che un giornalista possa essere detenuto per anni e poi estradato all’estero per affrontare un processo la cui sentenza - già scritta secondo tutti gli osservatori - non potrà che essere una punizione draconiana per aver pubblicato prove di crimini di guerra. Per aver, in sostanza, condotto degli atti di giornalismo.

Il “caso Assange” ha però progressivamente perso centralità nelle priorità di molte agende e si è chiuso nel cono d’ombra dei cavilli di una vicenda giudiziaria internazionale sempre più grottesca e complessa, smettendo di essere “spettacolare” e quindi notiziabile.

Allo stesso tempo, però, il “caso Assange” ha anche evidentemente perso appeal come occasione di posizionamento per molti e ha un po’ alla volta smesso di essere una questione di puro principio nell’immaginario collettivo, diventando una causa “difficile” da inquadrare nei riflessi automatici delle guerre culturali algoritmiche post-2016 e di conseguenza una causa meno urgente per molte e molti.

Il risultato è che un giornalista continua a morire in silenzio in un carcere di una capitale europea per via del suo giornalismo, e per di più del suo giornalismo meno controverso, quello che quattordici anni fa mise allo stesso tavolo le direzioni di alcuni delle più prestigiose testate giornalistiche occidentali, ben disposte a collaborare a quelle pubblicazioni che incastravano le guerre in Iraq e Afghanistan e i loro crimini.

Difendere il giornalismo

Ogni organizzazione per i diritti umani e per la liberà di stampa lo ripete da più di un decennio: il “caso Assange” è un attacco al giornalismo, le cui conseguenze sono palesi. Quell’allarme sta suonando da che è iniziata la mia vita adulta ma lo spettro dell’estradizione di Assange negli Usa sta per materializzarsi nella forma più concreta, ora che le strade percorribili per evitare quello scenario, da sempre il più preoccupante ed estremo, sono ormai microscopiche.

In questo eterno 2010, nella distrazione e nel disinteresse ed evidentemente per la felicità di molti, siamo arrivati a un passo dal vedere il “caso Assange” giungere alla conclusione che quattordici anni fa sembrava inimmaginabile.

Buona parte delle principali battaglie di oltre un decennio fa sui diritti digitali e la rete libera sono state perse, ora siamo di fronte alla possibilità di perdere anche quella che aveva inaugurato anche le altre. Il territorio che si apre oltre il “caso Assange” è totalmente inesplorato, ma certamente infestato di spettri.

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