«Sono stanco. A volte penso di prendere una corda e farla finita, come quel ragazzo di Torino». A parlare è Mohammed, uno degli ospiti del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano. È dentro da diversi mesi, ma proprio poche ore dopo essersi messo in contatto con noi è stato liberato. Della tragedia di Musa Balde, il 23enne che si è tolto la vita nella struttura torinese dove era finito dopo aver subito una violenta aggressione, si è venuto a sapere anche nel centro del capoluogo lombardo. E nessuno è rimasto sorpreso.

Autolesionismo e tentativi di suicidio da tempo scandiscono la quotidianità al suo interno. «Vediamo sangue di continuo, ogni giorno diverse persone finiscono in ospedale», racconta Mohammed. Il materiale che ci inoltra lo conferma: un video mostra le pareti dei bagni coperte di schizzi rossi, un altro un ragazzo pieno di tagli sulle braccia e sulle gambe che si lamenta, il sangue che cola.

Cinquanta ospiti, due operatori

Il Cpr di via Corelli ha aperto il 28 settembre scorso dopo mesi di proteste da parte delle reti solidali e delle organizzazioni per i diritti umani. Si trova tra la linea ferroviaria e il cavalcavia della tangenziale Est, lì dove in passato c’erano state altre esperienze di accoglienza. La gestione è stata vinta tramite appalto da Versoprobo e Luna Scs, realtà attive nell’ambito dell’immigrazione ma anche in strutture di tutt’altro tipo, legate al turismo.

Il meccanismo del bando è stato quello dell’asta al ribasso, la dignità di trattamento degli ospiti sacrificata in nome del risparmio. Oggi al suo interno ci sono una cinquantina di persone, perlopiù tunisini, mentre gli operatori sono solo due durante il giorno e uno di notte. Chi entra non ha commesso un reato, trattasi di detenzione amministrativa per i migranti senza permesso di soggiorno da tradursi nel più breve tempo possibile - massimo 90 giorni a parte alcune eccezioni - in rimpatrio. Nei fatti la situazione è peggiore di quella di una penitenziario.

«In carcere ci sono dei diritti stabiliti, durante la giornata si fanno delle attività, ci sono delle regole. Nel centro milanese no, è un luogo di passaggio vuoto dove le persone vengono parcheggiate anche per diversi mesi, in condizioni critiche», sottolinea l’avvocato Nicola Datena. Per riempire il tempo c'è giusto uno scacchi e una tv quasi sempre spenta, nonostante sarebbe prevista l’organizzazione di attività.

Secondo Datena il problema più grave del centro di via Corelli è l’assenza di una convenzione stipulata con l’Agenzia di Tutela della Salute (Ats), un unicum tra i Cpr italiani e una violazione dell’articolo 3 del Regolamento unico. «Manca un ospedale di riferimento e questo comporta tutta una serie di problematiche per le persone rinchiuse», spiega. «Al momento dell’ingresso non ricevono un’adeguata visita medica di compatibilità alla vita nella struttura, può sembrare una formalità ma per la legge è una condizione fondamentale per entrare. Ci sono poi persone che hanno bisogno di accedere a terapie che non sono quelle di urgenza del pronto soccorso e che se le vedono negate».

Dipendenze, autolesionismo e tranquillanti

Un esempio è quello dei tossicodipendenti, ce ne sono diversi in via Corelli. Il metadone spesso viene somministrato in ritardo e con terapie abbozzate e occasionali, manca ogni collaborazione con i Servizi per le Dipendenze patologiche (SerD). Praticare autolesionismo diventa una strategia per finire in ospedale e cercare di avere accesso ad altre terapie negate nel Cpr, nelle ultime settimane diverse persone si sono lanciate dal tetto per fratturarsi le gambe e poter uscire.

Stesso discorso per i disturbi psichici, sempre più diffusi ma perlopiù ignorati a causa dell’assenza di uno psichiatra che segua gli ospiti in maniera continuativa. L’unica cosa che non manca, dalle testimonianze interne che abbiamo raccolto, sono i tranquillanti, somministrati con la manica larga anche a chi non ha disturbi. «Ho visto ragazzi entrare sani e poi diventare zombie, al primo appuntamento erano determinati e combattivi ma negli incontri successivi sempre più passivi e apatici», conferma Datena.

Una situazione sanitaria esplosiva, che Mohammed ha vissuto sulla propria pelle nel periodo passato lì dentro, tra pensieri suicidi e molto altro. Il ragazzo ha una profonda ferita che non gli è stata curata, le croste insanguinate gli macchiano il corpo come ci mostra in un video. Gli ultimi giorni nella struttura poi li ha fatti con una caviglia rotta. Le numerose rivolte susseguitesi in questi mesi hanno fatto sì che i migranti venissero sottoposti a continue perquisizioni, denudati e privati degli oggetti considerati pericolosi. Le stampelle sono tra questi e Mohammed la notte, quando nessuno poteva trascinarlo in bagno, si è trovato a doversi urinare addosso.

Quando è stato liberato lo hanno lasciato fuori dal centro senza stampelle, ci hanno pensato alcuni attivisti a soccorrerlo. Nei bagni interni la situazione è altrettanto critica: la privacy degli ospiti è negata, non ci sono le porte e dalle immagini che abbiamo visionato le toilette alla turca sono tutte intasate, i pavimenti e i muri sporchi e ammuffiti.

Un inferno che dura mesi

Ma i problemi non finiscono qui. All’ingresso del centro vengono sequestrati i telefoni cellulari e se negli ultimi mesi agli ospiti è stato concesso fare chiamate – una decina di minuti al giorno, non garantiti a tutti – è solo perché a marzo è intervenuto il tribunale di Milano con una sentenza ad hoc.

Al Cpr si finisce per stare troppo poco o per troppo tempo. Inizialmente le persone entravano e venivano espulse in pochi giorni senza nemmeno riuscire ad avere assistenza legale, una violazione del Regolamento. Non gli veniva dato modo di comunicare con l’esterno e l’unica via che avvocati e associazioni avevano per poter fare qualcosa era contattare i familiari, se riuscivano a rintracciarli. Ora invece c'è chi si trova bloccato in questo inferno da ormai sei mesi: il rimpatrio non arriva per motivi burocratici ma la libertà sotto forma di rilascio con foglio di rimpatrio volontario entro sette giorni raramente è contemplata. Lo sciopero dei tamponi delle ultime settimane sta poi prolungando ulteriormente i tempi di detenzione.

Altre testimonianze che abbiamo raccolto parlano di riscaldamenti spenti durante l’inverno, cibo scaduto o di qualità infima servito in mensa, acqua calda assente per diversi giorni, minori trattenuti illegalmente a causa di test anagrafici tardivi e approssimativi, violenze ripetute da parte degli agenti. «Ti portano negli ambienti dove non ci sono le telecamere, ti sbattono contro il muro e partono con i manganelli», ci racconta un ospite, che si sofferma su una delle ultime perquisizioni subìte, con tanto di Corano buttato in terra e calpestato a sfregio. Il 25 maggio scorso decine di agenti antisommossa sono entrati nel centro per calmare una protesta sul cibo, ci sono state violenze e alcuni migranti sono finiti in ospedale.

«Siamo stati trattati peggio degli animali, avrei preferito morire che passare altro tempo lì dentro», sottolinea un ex ospite. Ora si trova in Tunisia e si dice felice di essere stato rimpatriato, qualunque cosa è meglio di quello che chiama «il lager di via Corelli».

Visite vietate

Che nella struttura tante cose non funzionano non lo si capisce solo raccogliendo le testimonianze di chi ci è stato rinchiuso. Gli avvocati penalisti di Milano hanno definito la situazione «disumana», una delegazione di Palazzo Marino ha evidenziato diverse criticità, mentre i parlamentari Gregorio de Falco e Simona Nocerino, in visita nel centro nei giorni scorsi, hanno detto di aver provato «un senso di vergogna» a causa di «situazioni di trattenimento incomprensibili». Perfino il sindacato di polizia ha parlato di una situazione «surreale».

Per i giornalisti entrare è praticamente impossibile nonostante sia consentito dal Regolamento, la nostra domanda di ingresso alla Prefettura è stata accolta dopo diverse sollecitazioni, per poi venire cancellata su ordine del ministero dell’Interno. Un rifiuto che stanno riscontrando tutti quelli che vogliono entrare in questo periodo, parlamentari a parte. Stesso discorso per la richiesta di chiarimenti al direttore del centro, Federico Bodo: «La Prefettura di Milano ha invitato a non rilasciare ulteriori interviste», ci ha scritto. Nelle scorse settimane però Bodo ha rilasciato su Facebook alcune dichiarazioni che rendono bene l’idea di quanto critica sia la situazione interna.

«La permanenza prolungata all’interno della struttura ha provocato ripercussioni pesanti sulla condizione psicologico-psichiatrica degli ospiti», ha sottolineato, confermando poi che «per persone che rimangono un tempo limitato (seppure per loro infinito) presso la struttura risulta pressoché impossibile accedere a visite specialistiche attraverso il sistema sanitario nazionale». Il trattenimento prolungato degli ospiti nel momento in cui il rimpatrio è impossibile viene infine da lui stesso definito «un trattenimento senza scopo, in violazione delle basilari norme costituzionali in materia di tutela della salute e dei Diritti fondamentali dell’uomo».

Tra gestori, Prefettura e Questura non è chiaro quando iniziano le responsabilità dell’uno e finiscono quelle dell’altro. Il problema è a monte in un sistema, quello dei Cpr, scarsamente regolamentato, ma ora a Milano si è messa in moto la strategia degli scaricabarile. A questo si aggiungono le poche risorse disponibili in un meccanismo di bando dove l’unica cosa che conta è il risparmio per lo Stato.

Il risultato è una situazione esplosiva, abbandonata a sé, come abbandonate a sé sono state le centinaia di persone che in questi mesi sono state rinchiuse in via Corelli, private anche dei più basilari diritti umani. Un fallimento su tutti i fronti che non sembra destinato a cambiare: nel nuovo bando per la gestione del Cpr, da cui Versoprobo e Luna Scs hanno deciso di tirarsi fuori, si parla addirittura di un ampliamento della capienza della struttura.

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