Parlare di Giorno del ricordo dalla prospettiva del confine orientale non è mai particolarmente facile. Non lo è in generale, per tutti i rischi di opposte semplificazioni e strumentalizzazioni che la data, nel corso degli anni, ha portato con sé. Lo è ancor meno farlo dal punto di vista di uno storico che fa al contempo parte di una comunità, quella slovena in Italia, che a quelle vicende è strettamente intrecciata. Ancor meno lo è dalla prospettiva di uno storico la cui visione del mondo è tale da averlo portato, nel corso degli anni, a svariate forme di impegno civile e politico. Cionondimeno è un tentativo che va fatto.

Quasi due decenni sono passati (18 per la precisione) da quando il parlamento italiano ha approvato, a larghissima maggioranza, la legge con la quale lo stato italiano ricorda la tragedia delle foibe, dell’esodo e della più complessa vicenda del confine orientale. Chi sta oggi frequentando le ultime classi delle scuole secondarie superiori (il gruppo di persone al quale maggiormente si rivolgono le iniziative che a questa giornata sono legate) è nato di fatto nell’anno in cui la legge è stata approvata. Che bilancio se ne può trarre, e quali considerazioni per il futuro?

Alcune considerazioni di ordine generale vanno sicuramente fatte in premessa. Innanzitutto la vicinanza del 10 febbraio al 27 gennaio, Giornata della memoria, non è rimasta senza conseguenze. Qui non mi riferisco tanto ai tentativi di strumentalizzazione espliciti, che pure ci sono e sui quali tornerò in seguito, quanto a un effetto meno consapevole, ma ciononostante altrettanto presente, quello cioè della tendenza delle amministrazioni pubbliche - giacché molto spesso sono queste ultime, soprattutto nelle loro articolazioni territoriali, dai comuni alle regioni – ad affrontare in un unico contesto le due giornate.

Confondere fenomeni storici

Il quesito, più politico che storiografico – dato che le amministrazioni pubbliche non sono chiamate a scrivere la storia – è se questo non abbia inevitabilmente come conseguenza quella di confondere, equiparare o mescolare fenomeni storici profondamente diversi nelle loro cause, nel loro svilupparsi e nelle loro dimensioni come sono state la Shoah – e il complesso delle vicende legate alla Giornata della memoria – con quanto è avvenuto nell’area altoadriatica nella prima metà del secolo.

Quanto cioè le studentesse e gli studenti che ogni anno arrivano – perché arrivano, e su questo tornerò in seguito – nell’area del famoso confine orientale vengono messi nelle condizioni di comprendere quanto questo sia un territorio che è stato segnato dal sovrapporsi di conflitti nazionali, ideologici e geopolitici che provocano il sovrapporsi di memorie molto diverse, a volte parallele, a volte apertamente confliggenti, degli stessi eventi?

E quanto sono invece sottoposti a un calderone indistinto, in cui 27 gennaio e 10 febbraio si mescolano, venendo a mancare l’indispensabile approfondimento che il rispetto verso chi ha sofferto negli eventi ricordati richiederebbe (dato che una delle caratteristiche che più spesso si presentano, da parte di chi strumentalizza, è il disinvolto uso di materiali, spesso fotografici, che con il tema nulla hanno a che fare? È rispetto questo?)

La storia tra i banchi

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La storia, oggettivamente, non rientra nelle priorità che la politica identifica nella scuola di oggi (neanche la politica progressista). Ogni anno, certo, si pone poi il tema della memoria (o, come più opportuno sarebbe nel caso del confine orientale, delle memoriE, al plurale). Ma fino a che punto queste tematiche, che sarebbero peraltro anche una straordinaria palestra di interdisciplinarietà, dell’affrontare uno stesso problema visto da diverse prospettive, di identificazione delle fonti e approccio critico alle stesse, vengono affrontate in questo modo?

La risposta, anche qui, è abbastanza semplice: molto è affidato alla sensibilità del singolo docente, istituto, soggetto esterno a cui la scuola o l’amministrazione locale si rivolgono. Poco c’è di sistematico e ancora meno di transnazionale. Questione nazionale in Austria-Ungheria; prima guerra mondiale; fascismo di confine e antifascismo; seconda guerra mondiale; resistenza e resistenze; occupazione nazista; ascesa del comunismo jugoslavo; guerra fredda e Territorio libero di Trieste; ognuna di queste vicende viene affrontata, raccontata e “risolta”, per così dire, non solo in Italia, ma anche nelle vicine Slovenia e Croazia.

Sono vicende che trovano posto nei programmi di studio di perlomeno tre paesi; ed è una riflessione che troppo spesso risulta essere del tutto assente dalle iniziative che di anno in anno si svolgono. Il che può esser comprensibile quando si tratti di iniziative locali, che non comportano il venire a visitare i luoghi di quelle vicende; ma rappresenta un’enorme occasione persa di europeismo se l’arrivare oggi in un luogo di confine non comporta anche il chiedersi “ma come sono i rapporti oggi?” e “ma come vengono affrontate queste vicende di là da quel confine?”

Da questo punto di vista molte sono le occasioni che se non perse sono sicuramente non sfruttate, anche se le buone pratiche non mancano, da questo punto di vista va segnalata la meritoria opera che l’Irsrec Fvg, Istituto di storia della resistenza e dell’età contemporanea del Friuli Venezia Giulia, svolge da decenni.

Manca la consapevolezza

(Foto LaPresse)

È peraltro da tenere presente che il contesto istituzionale sarebbe il più favorevole a un’azione coraggiosa e realmente transnazionale. Già più volte nel corso degli ultimi decenni l’area del confine orientale è stata oggetto della massima attenzione istituzionale di paesi vicini. Vista da una cornice più ampia la storia del dialogo fra capi di stato nell’area alto adriatica è probabilmente un esempio di buona pratica a livello europeo: ma di questo, di quanto è avvenuto negli ultimi decenni al confine orientale, quanto è consapevole l’opinione pubblica?

Il 13 luglio 2010 i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia sono a Trieste. È una data importante: esattamente 90 anni prima, il 13 luglio 1920, i fascisti a Trieste bruciarono il Narodni dom, la casa nazionale degli Sloveni triestini, una delle prime grandi prove di forza del fascismo che montava nella crisi dello stato liberale.

Novanta anni dopo i tre presidenti, Giorgio Napolitano, Danilo Turk e Ivo Josipović si recano a rendere omaggio a quell’edificio; rendono omaggio al Monumento all’esodo istriano fiumano e dalmata; e ascoltano il concerto dell’Amicizia diretto da Riccardo Muti, in piazza dell’Unità a Trieste, davanti a diecimila e più triestini. A quante studentesse e studenti italiani, che a febbraio di ogni anno arrivano a Trieste in occasione del Giorno del ricordo, si racconta anche di quella giornata e del significato profondo di sentire tre inni nazionali, applauditi da tutti, fischiati da nessuno, in quella piazza? O della dichiarazione congiunta che i tre presidenti emettono nelle tre lingue per l’occasione, ancora rintracciabile, in tutte e tre le lingue, sul sito del Quirinale se ci si prende il tempo di cercarla?

Dieci anni dopo un nuovo evento simbolico: nell’anno I della pandemia, il 13 luglio 2020, i presidenti di Italia e Slovenia sono di nuovo a Trieste, per manifestare il loro sostegno a un altro momento storico, in cui nel centenario dell’incendio quello stesso Narodni dom inizia il processo di restituzione alla comunità slovena triestina. Ma i due presidenti non si limitano a questo: vanno a Basovizza, anzi alle due Basovizze, dove per ben due volte fanno un gesto straordinario nell’anno del distanziamento sociale: si tengono per mano, in silenzio, di fronte a due monumenti.

Basovizza – in sloveno Bazovica – è un nome straordinariamente pregno di significato della storia europea del XX secolo: gli studenti italiani vanno – e associano il nome – all’omonima Foiba; gli studenti sloveni vanno – e associano il nome – al monumento che indica il luogo in cui il fascismo, fattosi regime, fece fucilare, volendo dare una prova di forza, quattro giovani antifascisti sloveni e croati nel 1930.

Quanti di quegli studenti, dell’uno e dell’altro paese, sapranno dell’esistenza dell’altro monumento, a una distanza che in linea d’aria non raggiunge i 500 metri e che è percorribile in una decina di minuti a piedi? E a quanti di quegli studenti verrà spiegato che cosa vuol dire che questo territorio è ancora oggi un territorio plurale, dove convivono lingue e culture, dove Trieste è anche Trst, Koper è anche Capodistria e così via, dove dalle Alpi Giulie alle Bocche di Cattaro quasi ogni luogo ha un nome in più lingue, dove il punto non è più quale vince sull’altro o ha più diritto ma come preservarli tutti?

Coraggio e conoscenza

Ma, per affrontare tutto questo, ci vogliono due cose: il coraggio, dell’accettare e affrontare, a viso aperto, anche l’altro e la sua memoria del passato; e la conoscenza, che vuol dire, banalmente, affrontare il tema avendolo studiato, nelle parti che sono più facilmente comprensibili e in quelle anche più ostiche, perché mettono in discussione il se stessi, le proprie idee, i propri approcci. Tutte cose che, nel mondo di oggi, sarebbero più che necessarie nella formazione dei cittadini europei consapevoli del domani.

Štefan Čok lavora alla sezione di Storia ed etnografia della Biblioteca nazionale slovena e degli studi a Trieste. È autore di monografie, saggi e altre pubblicazioni sul tema del confine orientale. Nel 2022 ha collaborato alla realizzazione della mostra virtuale Il confine più lungo (confinepiulungo.it), curata da Raoul Pupo, Fabio Todero e Čok stesso.

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