Oggi è il Giorno del ricordo, la celebrazione in cui si ricordano i massacri delle foibe compiuti dai partigiani comunisti e l’esodo di migliaia di italiani che alla fine della Seconda guerra mondiale abbandonarono i territori divenuti parte della Jugoslavia.

Fin dalla sua istituzione nel 2004, il Giorno del ricordo è una ricorrenza controversa e politicamente delicata, così come la vicenda che commemora. Gli italiani dell’Istria furono a lungo trascurati e per decenni i massacri a cui furono sottoposti sono stati ignorati dalla memorialistica nazionale. Poi, negli ultimi vent’anni, le Foibe sono diventate un elemento centrale del ricordo collettivo della Seconda guerra mondiale, grazie soprattutto all’intensa pubblicistica fatta dai partiti eredi della destra neofascista.

Il risultato paradossale è che mentre storici e istituzioni hanno compiuto passi importanti nella ricostruzione e nella riconciliazione, il dibattito politico e mediatico si è inasprito, spesso alimentato da ricostruzioni false, divisive e politicamente motivate.

Questa “politicizzazione” della vicenda è culminata l’anno scorso con la richiesta da parte di alcune forze politiche regionali e nazionali di equiparare le foibe alla Shoah. Un’idea che il più importante storico dei genocidi in Italia, Marcello Flores, ha definito «frutto di ignoranza o stupidità».

Le foibe

I massacri delle foibe e l’esodo dall’Istria furono il risultato dei crimini di guerra motivati politicamente compiuti dai partigiani comunisti jugoslavi e, in piccola parte, italiani.  

I massacri avvennero in due fasi. La prima si verificò in Istria nel 1943, quando il crollo del regime fascista permise ai partigiani di occupare brevemente la penisola dell’Istria. La seconda fase, più lunga e sanguinosa, si svolse nel 1945, al termine della guerra, ed ebbe il suo epicentro nei territori di Gorizia e Trieste, quando al collasso delle potenze dell’Asse, i partigiani comunisti uccisero migliaia di fascisti, di militari e di jugoslavi collaborazionisti. Furono uccisi anche moltissimi innocenti e ci furono regolamenti di conti e atti di criminalità comune.

I massacri prendono il nome da una formazione tipica del Carso, una specie di grotta sinuosa, naturale o artificiale, che da una piccola apertura in superficie sprofonda per decine di metri nel sottosuolo. In queste fosse, i partigiani gettarono i corpi di centinaia delle loro vittime.

Ma la maggior parte delle morti avvennero nei campi di prigionia, a causa della fame, della malattia o della brutalità dei carcerieri. Nella pubblicistica si possono trovare cifre molto differenti, ma gli storici sono concordi su una stima di circa 5mila vittime. Dopo i massacri, circa 300mila italiani lasciarono per sempre l’Istria e gli altri territori assegnati alla Jugoslavia. 

La vicenda del confine orientale

Quello che spesso manca nel racconto dei massacri delle foibe è la più complessa vicenda del “confine orientale”, quella che un tempo veniva chiamata Venezia Giulia, un’area dove per secoli hanno convissuto differenti nazionalità, in cui periodi di pace e prosperità si sono alternati ad altri di tensione sanguinosa. 

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, su questo territorio si stabilì un’egemonia italiana che con l’arrivo del regime fascista divenne rapidamente oppressiva e violenta. La situazione peggiorò con lo scoppio della guerra, nel 1940.

L’Italia fascista invase la Jugoslavia e occupò larga parte del paese. La popolazione di lingua slava dentro e fuori dal vecchio confine venne sottoposta a un regime brutale. Villaggi vennero bruciati, sospetti partigiani e ostaggi furono fucilati. In un famoso telegramma, il capo dell’esercito ammoniva i generali sul campo: «Si ammazza troppo poco!».

Circa un milione di croati, serbi, sloveni, bosniaci, macedoni e montenegrini morirono nel corso dell’occupazione e nella guerra civile scoppiata poco dopo, più del doppio di tutti i morti avuti dall’Italia nel corso della guerra.

Il conflitto civile venne vinto dai comunisti, che occuparono tutto il paese, comprese le aree diventate italiane dopo il 1918. Si fermano solo a Trieste e all’incirca all’attuale confine tra Italia e Slovenia, dove incontrarono l’esercito alleato che avanzava dalla pianura padana.

Nei territori appena liberati, il leader comunista Josip Broz, detto Tito, e il suo partito, applicarono una spietata opera di pulizia politica, non solo nei confronti degli italiani. Decine di migliaia di collaboratori degli occupanti, di rivali nella guerra civile e di altri oppositori politici furono uccisi dopo processi sommari. Altre centinaia di migliaia finirono nei campi di lavoro.

In tutto circa 100mila persone, in stragrande maggioranza jugoslavi, furono uccisi dai partigani tra la fine della guerra e gli anni immediatamente successivi. Tra loro il consueto numero di innocenti e di regolamenti dei conti. Di questi, circa 5mila furono italiani.

La decisione definitiva sul territorio di confine sarà presa solo nel 1954, dopo nove anni di amministrazione internazionale della città di Trieste e di una fascia di territorio conteso.

Il ricordo

Mentre le foibe, intese come il massacro compiuto tra 1943 e 1945, sono uno dei numerosi eventi terribili che sono stati compiuti durante uno dei periodi più sanguinosi della storia dell’umanità, la vicenda del confine orientale nel suo complesso è una storia – come molte altre – ben più complessa e delicata e che per lungo tempo tutti hanno preferito ignorare.

I comunisti italiani e jugoslavi avevano evidenti ragioni per glissare su quel periodo, ma anche la destra italiana non fascista preferì farlo cadere nel dimenticatoio. Nessun leader politico o militare italiano è mai stato processato per i crimini commessi in Jugoslavia e occuparsi troppo dei massacri avrebbe rischiato di riaprire la questione. 

Il risultato di questa “congiura del silenzio” è stato un lungo oblio di tutta la vicenda. Per decenni i parenti delle vittime e gli esuli dei territori occupati sono stati trattati come polvere da nascondere sotto il tappeto. Prima con la mancanza di aiuti economici, poi con l’assenza di riconoscimento del loro dramma. Non solo i massacri delle foibe, ma l’intera vicenda del confine orientale, oltre un terzo di secolo di convivenza a volte pacifica e spesso violenta, è stato per lungo tempo cancellata dalla memoria collettiva.

La vicenda è stata “riscoperta” a partire dagli anni Ottanta, quando un gruppo di studiosi “revisionisti”, tra cui il più celebre è lo storico triestino Raoul Pupo, autore della voce “foibe” nell’enciclopedia Treccani, ha iniziato a ricostruire i dettagli di quella storia. Dopo il crollo del comunismo, anche storici dei paesi appartenenti alla ex Jugoslavia si sono aggiunti alla ricerca.

Al lavoro dei professionisti da entrambi i lati del confine si è poi affiancato quello delle istituzioni, che hanno compiuto numerosi gesti simbolici e concreti. Oltre alle strette di mano e alle cerimonie – che pure hanno la loro importanza – l’Italia è stato uno degli sponsor dell’entrata in Europa e nell’euro dei paesi balcanici ed è uno dei loro principali partner commerciali. Oggi la retorica anti-slava o anti-italiana è ridotta a sparute, anche se vocali, minoranze.

La polemica

Eppure, in Italia, i massacri del 1943-1945 sono diventati negli ultimi anni un tema ossessivo del dibattito pubblico, rievocati ogni anno, utilizzati come clava nelle più disparate contese politiche. L’uso di questo episodio è così frequente da aver prodotto perfino un meme, l’espressione ironica «e allora le foibe?», che prende in giro il tentativo di minimizzare qualsiasi questione raffrontandola ai massacri del confine orientale.

Questa proliferazione ha proceduto parallelamente all’approfondimento della ricerca storica e alla riconciliazione operata dalle istituzioni e, per così dire, ha raramente incrociato il cammino di entrambe.

Questa seconda “riscoperta” dei massacri delle foibe inizia alla fine degli anni Novanta, con l’arrivo al governo del primo partito erede del movimento neofascista, Alleanza nazionale, l’unica area politico-culturale che in Italia aveva mantenuto vivo il ricordo dei massacri.

Sono gli anni in cui Silvio Berlusconi «costituzionalizza i fascisti», come ha detto lui stesso con un’azzeccata definizione. E parte di questa “costituzionalizzazione” consiste in una rivisitazione della guerra partigiana e della fine del regime fascista in Italia. L’idea, in sostanza, è che accogliendo gli eredi del neofascismo al governo, la storia vada rivisitata: i meriti dei vincitori e quelli degli sconfitti vanno, se non parificati, per lo meno rivisitati. Luciano Violante, l’ex comunista presidente della Camera tra il 1996 e il 2001, è stato una delle figure centrali di questo processo.

Il Giorno del ricordo, la ricorrenza nazionale, viene istituita nel 2004, dopo il ritorno al governo della destra. La data scelta è il 10 febbraio, giorno della firma dei trattati di Parigi, l’accordo di pace dopo la Seconda guerra mondiale. L’idea di una commemorazione nazionale dei massacri suscita immediatamente molti dubbi e ancora di più li causa il fatto che cada così vicina e abbia un nome quasi identico al Giorno della memoria, la ricorrenza della Shoah che cade il 27 gennaio.

L’anno prima, esce il Sangue dei vinti, il primo libro di una fortunata serie del giornalista Giampaolo Pansa, in cui i massacri delle foibe, che gli storici come Pupo sono tornati a raccontare e contestualizzare da oltre 20 anni, vengono romanzati e spettacolarizzati. 

I libri di Pansa hanno un enorme successo e vengono presentati da una certa pubblicistica come una sorta di “riscoperta” di massacri ed episodi fino a quel momento dimenticati. Decine di altri libri, film e fiction che presentano la stessa angolatura vengono prodotti negli anni successivi. 

Secondo lo storico Carlo Greppi, questo racconto delle foibe è il culmine di un «tentativo di normalizzare il passato dittatoriale e razzista del nostro paese dipingendo i carnefici fascisti come figure non peggiori delle vittime».

Diplomazia e pulizia etnica

La polemica sulle foibe ha avuto ricadute diplomatiche nei paesi dell’ex Jugoslavia. Il momento di maggiore tensione è stato raggiunto durante la presidenza di Giorgio Napolitano, quando nel 2007 il presidente della Repubblica ha parlato di «pulizia etnica», di «furia sanguinaria» e di «disegno annessionistico slavo» nel suo discorso ufficiale nel Giorno del ricordo in cui non aveva menzionato neppure in un passaggio la lunga occupazione e le violenze fasciste.

In risposta, il presidente croato Stipe Mesić ha accusato Napolitano di revisionismo storico e di razzismo, per aver usato l’espressione generica “slavo”, invece di parlare delle nazionalità effettivamente coinvolte negli episodi. In un articolo di quei giorni, il quotidiano Guardian si domandava cosa sarebbe accaduto se fosse stato un presidente tedesco a parlare di «furia sanguinaria slava», un’espressione tratta direttamente dalla retorica razzista e anti-slava dei regimi fascisti e nazisti.

L’incidente diplomatico è durato per giorni, tre le dure critiche dei croati e l’altrettanto dura reazione del governo italiano guidato da Romano Prodi. Secondo i giornali dell’epoca, funzionari italiani avrebbero avvertito i loro omologhi croati che l’Italia avrebbe potuto ostacolare il loro ingresso nell’Unione europea se non avessero adottato un atteggiamento più conciliante.

Questo episodio contribuisce a mettere in luce un’altra questione centrale nel dibattito pubblico sui massacri delle foibe. Ossia: com’è giusto definirli? Furono una pulizia etnica o addirittura un genocidio?

La risposta che dà la gran parte degli storici è che nessuno dei due termini è adeguato. “Pulizia etnica” è la parola con cui si identificano i massacri compiuti tra il 1992 e il 1994 nel conflitto tra Serbia e i suoi alleati e Croazia e consumato in gran parte nei territori della Bosnia-Erzegovina.

Anche se diventato di uso comune, il termine serviva a indicare una realtà specifica. Le uccisioni vennero compiute in larga parte per favorire una sorta di macabro progetto di ingegneria etnico-sociale: eliminare una componente etnica di una popolazione mistica per assicurarsi l’assegnazione di un territorio arrivati al tavolo della pace.

Anche se è possibile trovare il termine “pulizia etnica” associato ai massacri delle foibe in alcuni testi accademici, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che i partigiani jugoslavi di Tito non avevano bisogno di “ingegneria sociale” per assicurarsi i territori che desideravano. Il confine tra l’Italia e la nuova Jugoslavia sarebbe stato determinato non dalla composizione etnica dei territori in questione, ma dal luogo dell’incontro con gli eserciti alleati, come stava avvenendo in tutto il resto d’Europa.

La parola genocidio viene ritenuta altrettanto inadeguata. La definizione ufficiale e legalmente riconosciuta di questo termine è il tentativo di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico o religioso. La Shoah fu un genocidio, i massacri delle foibe no. Tra gli assassini si potevano trovare partigiani italiani, mentre gli italiani rimasti in Jugoslavia dopo l’esodo non solo non furono uccisi, ma spesso venne loro impedito persino di lasciare il paese: italiani o no, le loro competenze e il loro lavoro erano troppo utili alla nuova Jugoslavia per lasciarli andar via o eliminarli fisicamente.

La discussione sulle definizioni, in ogni caso, aggiunge poco alla natura di una tragedia. Né aiuta molto a processarne la memoria. Sono semmai il segnale che del merito della questione ormai importa a pochi, che tutto il dibattito è ormai politico e ciò che importa è segnare un punto nei confronti degli avversari. Sono trascorsi 18 anni dal primo Giorno del ricordo e la situazione non sembra essere cambiata.

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