Quando si parla di lesbiche in Italia, c’è un nome che torna sempre: Lucia Caponera, presidente di Differenza Lesbica. «Devi sentire Caponera. Caponera sa tutto», dicono in molti. Classe ’77, laureata in filosofia, attivista dal 2005, Caponera è diventata un punto di riferimento per chi vuole capire cosa significhi vivere la propria identità lesbica e lottare per i diritti civili in Italia.

Il suo percorso comincia con una scoperta personale: «È come quando buchi, speri che ci sia la ruota di scorta e, quando lo scopri, sei felice. Sono stata felicissima, una cosa bella». Dal 2008 entra in Arcilesbica Roma, nel 2012 nella segreteria nazionale e nel 2015 diventa vicepresidente. Nel 2019, dopo aver lasciato Arcilesbica, dà vita a Differenza Lesbica, un’associazione autonoma che mantiene gli stessi obiettivi politici: visibilità, resistenza e consapevolezza.

Caponera osserva con lucidità la situazione attuale: «L’Italia in questo momento assiste a una nuova generazione del soggetto lesbico e c’è tanta forza, tanto genio, tanta consapevolezza e voglia di affermarsi». Parla chiaro dei media che spesso ignorano le lesbiche, della violenza verbale come capitale economico, dell’importanza degli alleati emotivi e dell’attivismo concreto sul territorio. «Ci stiamo provando», dice, con tono deciso e asciutto, che non ammette scorciatoie. In un paese dove «le lesbiche non esistono», Lucia Caponera resta una voce necessaria, imprevista, una luce per chi vuole comprendere una realtà troppo spesso invisibile.

C’è un bel libro di Elena Biagini dal titolo “L'emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni '70 e '80”. Lo sfogliavo e pensavo che nel movimento lesbico italiano tutto quello che si muove non si vede, oppure è prerogativa di una sola associazione con poche iscritte. Tanto che viene da chiedersi: ma in Italia le lesbiche esistono ancora?

Le lesbiche in Italia non solo esistono, ma resistono, e questo non è una fagocitazione dei binomi, è un valore: la resistenza. Le lesbiche fanno parte del movimento, si dice, ma non è così. Hanno un proprio movimento. Sono dentro il movimento Lgbt, ma sono un movimento a sé. Certo, nella situazione contemporanea, il soggetto lesbico fa fatica. È sempre stato imprevisto, possibile che debba emergere da tentativi di cancellazione politica a cui non si dava riferimento, ma ci sono situazioni interessanti. Il soggetto lesbico non solo è partecipe della sua storia, ma può anche far parte di nuove generazioni. Parlo di questa “L” che si riempie non solo di asterischi meravigliosi, ma di un modo allargato e plurale di sentirsi lesbiche. Non è solo una posizione politica, ma un nuovo modo di rappresentarsi: la politica per quanto riguarda la sessualità, ma anche la scoperta dell’identità, che è più fluida rispetto a una storia che, per tante giovani, se non raccontata, diventa pesante.

Quindi qualcosa si muove.

L’Italia in questo momento assiste a una nuova generazione del soggetto lesbico. Negli ultimi cinque anni, con l’ultima Dyke March, abbiamo visto che c’è tanta forza lesbica, tanto genio, tanta consapevolezza e voglia di affermarsi, soprattutto senza mettere a tacere il confronto generazionale, che è vitale perché le nuove generazioni non solo portano novità, ma consentono anche a noi un aggiornamento politico che parte da esigenze che non possono essere ignorate. È la nuova cultura lesbica, che si esprime a scuola, al lavoro, nelle associazioni. Si dice sempre che le lesbiche fanno fatica; dovremmo parlare di un certo lesbismo che fa fatica, ma con contaminazioni che non devono riscrivere il soggetto lesbico, ma tenerne conto.

Nei fatti, sui media generalisti, le lesbiche spariscono.

Noi abbiamo assistito al lesbismo come a un addendum che fa fatica a essere considerato dai media. I giornali sono pochi a parlarne. Penso al caso del lesbicidio di Elisa Pomarelli: anche nella sua vicenda, la narrazione collettiva non ha usato le parole opportune ed è stato scambiato per un femminicidio. Nella narrazione collettiva, qual è l’immagine della lesbica? Volgarmente si dice sempre: “Non ha trovato quello giusto, prima o poi arriverà”. A noi non manca il soggetto maschile: abbiamo amore verso altre donne, e questo politicamente fa fatica a emergere. Lo abbiamo visto anche durante la discussione sulle unioni civili.

Gli unici personaggi che mi vengono in mente sono Francesca Pascale, donna che ama le donne, e Imma Battaglia, attivista storica.

Per quanto riguarda Imma Battaglia, c’è uno sdoganamento pubblico alla luce del sole, ma anche un impegno che le va riconosciuto. Su Francesca Pascale posso dire che il suo attivismo è politicamente distante dal mio orizzonte di interesse, però oltre questo, ben poco altro. La rivendicazione pubblica della soggettività lesbica deve passare attraverso un impegno civico e civile. Il passato si deve rivestire del presente. Serve una nuova rappresentazione, un’espressione presente del lesbismo. Ci stiamo provando. Ci sono compagne che fanno un lavoro importante; quello che abbiamo fatto con la Dyke March è lontano, ci vuole tempo. Tutte noi abbiamo “sofferto” dopo quello che ci ha lasciato Arcilesbica. 

Lei cita Arcilesbica, associazione ormai di pochissime iscritte sempre più vicina al governo e a questa destra. Tempo fa intervistai la fondatrice che ne prende le distanze, Titti De Simone, e mi disse: «Sono tornate alla casa del padre, ovvero a un’idea del potere; noi avevamo fondato la casa della madre».

La loro è stata una strumentalizzazione politica, ma c’è un fatto vero: questa liaison con la destra autoritaria, che nega diritti ed esistenza di famiglie allargate, ha fatto molto male al movimento e ci siamo trovate sbigottite. Non siamo state solo sotto l’ombrello delle madri: tutte le esperienze uscite dopo sono state laboratori di vitalità e resistenza, perché c’è un’evoluzione temporale e politica dentro di noi.

Può declinare le battaglie del movimento lesbico oggi?

Sempre di più la visibilità delle nostre esistenze, la politicizzazione delle nostre vite. Essere lesbica è un posizionamento politico, con uno sguardo transfemminista. Siamo un movimento che si muove all’interno di una compagine intersezionale, un’altra parola importante. Bisogna fare attenzione anche al discorso dei coming out dei giovani e dar loro punti di riferimento. C’è tutta la storia che, anche in Italia, grazie alla Corte costituzionale, è stata possibile sulla maternità, ma è un percorso molto stretto. C’è tutta la decostruzione della legge 40, una riflessione sul divieto di accesso alla pma per le coppie lesbiche e le donne single in Italia. Basta con i viaggi all’estero: uno stato di diritto deve garantire le stesse opportunità. Questo è un discorso fermo al 2015. E poi c’è tutta la questione della pluralità nel lesbismo, che deve essere una decostruzione continua. La lotta delle nostre esistenze va oltre il maschile conosciuto nella norma. Non è vero che siamo donne contro: vivere l’amore, la sessualità e le relazioni tra donne non vuol dire detestare il maschile, ma avere un occhio critico verso tutto ciò che riguarda il patriarcato, incluso il sistema educativo.

Le parla spesso nei suoi interventi di capitale economico della violenza verbale, può spiegarci cosa intende?

Mi riferisco a tutti quegli episodi, nel mainstream e sui social, che non fanno altro che arricchire il “capitale” di chi commenta o sfrutta la violenza. Se scrivo di due persone dello stesso sesso che subiscono aggressioni, altri si sentono autorizzati a discriminare ulteriormente perché ci sono media che danno loro gli strumenti per farlo. È qualcosa che questo governo costruisce quotidianamente, negando diritti e attaccando in maniera ponderata.

Anche l’attivismo è un capitale economico?

Direi di sì in misura diversa. Bisogna avere autocoscienza. Non può farlo chiunque: ci vuole competenza. Chi fa attivismo spesso dimentica chi è, perché la realtà va veloce e bisogna stare sul pezzo. Quindi ci si perde. Non tutti possono fare tutto. La patente di attivista non ti dà il lasciapassare per entrare ovunque. Serve, ripeto, competenza e autocoscienza.

E invece quando lei parla di “alleati emotivi” cosa intende?

Tutte quelle persone che sono vicine, creano un sistema di riferimento che ci vede insieme, che comprendono, non fanno fatica a riconoscere i propri gap, a capire sempre di più. Sono quelli che non sovradeterminano gli spazi, ma riconoscono la rappresentatività autonoma e sanno riempirne di significato portando il loro vissuto. È una cosa positiva, però spesso rappresentano il di più: sono quelli che, rispetto alla comunità Lgbt, si rendono partecipi delle nostre lotte, ma sanno anche stare al posto proprio e non sovradeterminano un movimento di liberazione. Anche stare al proprio posto serve.

Lei che fa attivismo da 20 anni, con il corpo e la testa che idea ha di questo attivismo performativo sui social a colpi di card?

Con le mie compagne diciamo: “Devi fare più reels, devi stare su TikTok”, ma io a questo non voglio arrendermi. Mi appartengo e appartengo a chi cerca alleanze sul territorio. Sto attenta alla sovraesposizione social: i follower non rappresentano la chiave delle battaglie. Le fonti di attivismo social spesso sottraggono approfondimento. Serve andare a fondo, fare piazza, stancarsi con le gambe, non solo gli occhi».

Lei lavora molto sulla violenza tra donne.

Questo è un tema cruciale: ci lavoriamo da più di 15 anni. La violenza nelle relazioni tra donne non è “1+1=2”, ma coinvolge famiglia, società e soggettività eteronormate. Lo stiamo affrontando con il movimento lesbico, ascoltando le narrazioni delle donne e delle soggettività lesbiche. Su queso tema bisogna continuare e resistere.

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