È un poliziotto, sì. Ma non aspettatevi l’uomo d’ordine tutto virilità e retorica d’acciaio. Alessio Avellino ha scelto di indossare la divisa per proteggere, non per intimidire. E prima ancora ha scelto di vivere nella verità: uomo trans, entrato in polizia con documenti che non gli appartenevano, ha attraversato gerarchie, silenzi e burocrazia per affermare che sì, si può essere sé stessi anche dentro uno dei corpi più rigidi dello stato.

Dottorando alla Federico II di Napoli in Scienze sociali e statistiche, con interesse di ricerca per le trasformazioni di genere all'interno delle forze di polizia. Già presidente di Polis Aperta, attivista e formatore lgbtqia+. Alessio non si limita a esserci: studia, argomenta, interroga, soprattutto quando la politica abbaia dal basso. A chi, come il generale Vannacci, da eurodeputato della Lega, liquida l’identità come debolezza e irride chi partecipa al Pride chiedendosi «chi mandiamo in guerra, loro?», Alessio risponde senza slogan: «Noi ci siamo già. Serviamo il paese, come tutti gli altri. E lo facciamo meglio di chi divide». Questa non è solo un’intervista. È una sfida lanciata da dentro l’uniforme, contro chi vorrebbe usarla come una clava.

Quando ha deciso di entrare in polizia e cosa rappresentava per lei, allora, quella scelta?

«Avevo già cominciato l’università, poi siamo stati chiamati al concorso e sono entrato nel 2019. Mi ha sempre affascinato l’idea di dare sicurezza, offrire protezione in modo concreto. Sono una persona pratica, anche nei miei affetti: il mio modo di amare è fare qualcosa per l’altro. E la sicurezza, per me, è amore concreto. Volevo incarnare i valori costituzionali della polizia, come esserci sempre. Anche nelle relazioni, io credo molto nella presenza, non solo emotiva ma anche fisica. A differenza della narrazione che spesso separa “noi civili” da “loro poliziotti”, a me interessava l’idea di lavorare all’interno di un sistema complesso, di capire come funziona davvero. La polizia è molto più di quello che si vede: ordine pubblico, volanti ma c’è tutto un mondo dietro. E mi affascinava farne parte».

Ha affrontato il concorso e la formazione con documenti non ancora allineati alla sua identità. Come ha vissuto quel passaggio?

«Ho iniziato a maturare l’idea di voler intraprendere un percorso di affermazione di genere proprio durante la scuola per allievi agenti. Sono entrato al femminile, ho fatto il concorso con documenti femminili, ma sentivo che stavo fingendo con me stesso. Anche raggiungendo obiettivi importanti, mancava sempre qualcosa. Quel qualcosa ero io. Mi sono detto: sarà la cosa più dura che farò nella mia vita, ma non posso rinunciare a essere Alessio per un lavoro. Non c’erano riferimenti, nessuno si era esposto pubblicamente. Ovunque chiedevo, mi dicevano: “Le persone trans non ci stanno”. Ma io ho pensato: “Quello che faccio non sarà mai più importante di quello che sono”. E anche se andrà male, devo provarci. Sono il primo? Forse sì. Ma tutti, prima o poi, siamo stati “il primo” di qualcosa».

Il momento del giuramento è diventato simbolico: pantaloni invece della gonna. In quel gesto, cosa si è rotto e cosa si è aperto per lei e per la comunità?

«Quel momento ha rappresentato la possibilità per le persone trans di esistere oltre la propria identità di genere. Non solo “essere trans”, ma poter fare tutto, anche entrare in polizia. E invece ancora oggi si sente dire: “Ma le persone trans possono fare il concorso?”. Il problema non è la domanda, ma le risposte scoraggiate, ignoranti, piene di disinformazione e transfobia interiorizzata. Io mi sono trovato a dover spiegare che la norma c'è, ma è un regolamento vecchio che non viene applicato dal momento che io ci sono e altre persone trans ci sono. Per cambiare questo status quo bisogna provarci, ecco. Eppure, nemmeno i docenti sono sempre tutelati. La verità è che in Italia la pubblica amministrazione, nella sua struttura, ci ignora. La polizia è solo un esempio, ma il problema è sistemico».

La polizia è un corpo gerarchico e molto codificato. Quali difficoltà quotidiane può incontrare una persona trans?

«Sto lavorando alla mia tesi di dottorato proprio su questo: le trasformazioni di genere all’interno dei corpi di polizia. La polizia, come tutte le istituzioni pubbliche, è fondata su un modello binario. Una difficoltà banale ma reale? La divisa: maschile o femminile. Quando ti danno quella maschile? Solo con la rettifica dei documenti? Io sono stato fortunato: dopo meno di un anno in terapia, mi hanno dato la divisa maschile. Ma burocraticamente non esisteva una giustificazione: nel sistema di chi lavora al Veca (Vestiario, equipaggiamento, casermaggio, armamento) ero ancora registrato con la “F”. Il problema non è la cultura, è la burocrazia: il sistema ti permette di cambiare tutto, ma non la “M” o la “F”. Serve più flessibilità, anche tecnica».

Ha mai subito discriminazioni esplicite o più sottili come mancati riconoscimenti, battute, isolamento?

«Da ricercatore, la letteratura scientifica parla chiaro: prima che transfobica, la cultura della polizia è profondamente misogina. Le donne sono entrate in polizia solo nel 1981. È un’istituzione storicamente maschile, dove l’identità è ancora legata a un’idea di virilità, forza, machismo. Quindi sì, le difficoltà ci sono, anche per gli uomini eterosessuali che non rientrano in quei canoni. Io non ho mai ricevuto insulti o aggressioni, ma ho vissuto il silenzio punitivo: colleghi che non volevano condividere la macchina con me, che facevano finta che non esistessi. Poi ho visto le stesse persone cambiare. La mia sostituta commissaria all’inizio usava il mio nome al femminile per “rispettare i documenti”. Oggi è una paladina dei diritti. Ha studiato, mi ha detto: “Scusa, non avevo mai capito nulla. Mi hai aperto un mondo”. Il valore del narrarsi può cambiare davvero le persone».

Il generale Vannacci oggi è europarlamentare della Lega, colleziona battute omotransfobiche e non solo. L’ultima: «Ci riarmiamo e poi chi mandiamo in guerra? Quelli del Gay pride?». La preoccupa?

«È difficile commentare chi vive di provocazione, ma ciò che mi preoccupa è la narrazione che si crea attorno. Gli ho chiesto pubblicamente: “Le persone come me che servono il paese e vanno ai Pride dove si collocano?”. Non ha risposto naturalmente. Ma noi esistiamo: siamo in polizia, nei corpi militari, nella società. Le narrazioni binarie sono tossiche, creano opposizioni inutili. Le identità sono fatte di contraddizioni, di sfumature. Non serve fare guerra, serve dialogo».

Ha mai temuto che figure come Vannacci possano rafforzare atteggiamenti discriminatori nei corpi di polizia?

«Temere quello significherebbe attribuirgli un potere che non ha. La maggior parte delle persone nelle forze dell’ordine non lo stima. Molti colleghi si chiedono: “Ma chi lo ha messo lì?”. Mi spaventa di più l’effetto esterno: si crea un’immagine anacronistica della polizia e questo ci danneggia. La società pensa: “Sono tutti come lui”. E invece no. La maggior parte delle persone nei corpi di polizia non si riconosce in quelle idee. Ma se continuiamo a contrapporre “noi” e “loro”, perdiamo l’occasione di costruire un ponte tra società civile e forze dell’ordine».

Cosa direbbe a una persona trans che sogna di entrare in polizia ma ha paura di non trovare spazio?

«Direi semplicemente: io esisto. Avrei dato qualunque cosa per trovare un esempio prima di me, e non c’era. Ora ci siamo. Non sono l’unico. È possibile. Non significa che sarà facile, ma se lo desideri davvero si può fare. Le cose stanno cambiando, e il cambiamento passa anche da chi ci prova. Non bisogna rinunciare all’immaginario: lo stiamo creando, ed è reale».

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