Ci sono italiani che non fanno notizia, ma tengono in piedi il paese. Non promettono rivoluzioni, le praticano ogni giorno con la testardaggine di chi crede ancora nell’educazione. Davide Zotti, insegnante triestino di filosofia, è uno di questi: una di quelle querce solitarie che continuano a reggere la collina mentre intorno si tagliano boschi. Nel 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli consegnò una medaglia di bronzo per il progetto di Arcigay “A scuola per conoscerci”, un’iniziativa che da allora attraversa medie e superiori del Friuli Venezia Giulia parlando di identità sessuale, rispetto e conoscenza. Un riconoscimento raro, e più che meritato, per chi da anni lavora in silenzio contro il bullismo e l’omotransfobia, in un paese dove spesso si confonde l’educazione con l’ideologia.

Il professore Zotti non ha alle spalle lobby milionarie ma qualche volontario e la convinzione che la scuola sia ancora il luogo dove si può imparare a non odiare. È di quelli che fanno tanto con poco, e con le parole ha costruito in quindici anni una piccola rivoluzione culturale.

Poi è arrivata la politica, quella dei proclami e delle paure. La giunta Serracchiani aveva inserito un modesto finanziamento nel bilancio regionale: la Lega di Massimiliano Fedriga lo ha cancellato appena salita al potere. Da allora Zotti e i suoi colleghi si sono reinventati tutto – raccolte fondi, volontariato, accordi con piccoli comuni – pur di non spegnere la fiammella. Perché, come dice lui, «vietare di parlare è vietare di esistere».

Eppure c’è chi ancora lo accusa di “indottrinare”, come ha fatto il ministro Valditara. Ma basterebbe entrare una volta in una di quelle classi per capire che non c’è ideologia, solo educazione civica nel senso più nobile. Ragazzi che imparano a usare parole come “gay” o “lesbica” senza paura, insegnanti che si confrontano, scuole che scoprono quanto il rispetto possa essere rivoluzionario. È un’Italia minuta, quella che lui rappresenta, ma è anche quella che ci salva ogni giorno dall’imbarbarimento. La sua lezione, oggi più che mai, è che la libertà non si insegna con le circolari, si testimonia, in silenzio, con la schiena dritta.

Professor Zotti, nel 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì a lei e ad Arcigay Arcilesbica Trieste una medaglia di bronzo per l’iniziativa virtuosa “A scuola per conoscerci”, il progetto sull’educazione sessuo-affettiva che coinvolge medie e superiori. Come ricorda quel periodo?

È stato un periodo impegnativo, ma avere il riconoscimento del presidente della Repubblica ci ha fatto enorme piacere perché ha legittimato istituzionalmente un progetto che portavamo avanti da cinque anni e che aveva già raccolto pareri positivi dalla scuola. È stato un salto di qualità: nel nordest si iniziava solo allora a fare questo tipo di lavoro. Il 19 maggio 2010 il Presidente ci aveva scritto un apprezzamento per il progetto, che coinvolgeva già allora 30 istituzioni scolastiche impegnate, più di dodicimila studenti del Friuli Venezia Giulia contro la discriminazione, e l’anno successivo è arrivata la medaglia. Sono stati due riconoscimenti importanti».

Sono passati quindici anni, il progetto cammina ancora sulle sue gambe anche se lei adesso partecipa come volontario. In cosa consiste?

Si inizia con un primo incontro in orario curriculare sui temi dell’identità sessuale, delle discriminazioni, dell’orientamento e dell’espressione di genere e del fenomeno del bullismo, allora chiamato omofobico, oggi più correttamente omolesbobitransfobico. L’incontro avviene con una psicologa formata su questi temi, sia nelle scuole medie sia nelle superiori. Segue un secondo momento, con la psicologa e volontari di associazioni del territorio, in cui gli studenti possono confrontarsi con persone Lgbtq e porre loro domande. L’obiettivo è destrutturare stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni. I volontari raccontano aspetti della propria vita personale, mettendo in luce difficoltà e capacità di resilienza e mostrando che l’appartenenza alla maggioranza sessuale o di genere non determina il valore della persona.

Professore, lo stesso ministro Valditara di recente si è espresso negativamente verso questi corsi. Al Corriere della sera ha dichiarato che le vostre associazioni sono «ideologizzate, fanno propaganda, spesso retribuita dai contribuenti» e ha parlato di «indottrinamento». Fate indottrinamento?

No, è un percorso educativo e informativo. Questi temi sono molto importanti, perché a scuola ci sono ragazzi e ragazze che hanno iniziato un percorso di scoperta o che esprimono il proprio genere in maniera non conforme ai dettami del binarismo o semplicemente hanno parenti, amici che fanno parte della comunità Lgbtq. Il progetto crea una cultura del rispetto e della conoscenza. Tutto è sempre stato a carico delle associazioni che partecipano alle risorse regionali attraverso dei bandi, non c’è nessuna propaganda.

Che rapporto avete avuto negli anni con la politica, mi riferisco soprattutto a quella regionale?

Con l’amministrazione Serracchiani, ricordo l’assessora Panariti che voleva coinvolgerci e l’anno successivo venne inserito un capitolo di spesa strutturale nella legge finanziaria proprio per il progetto. Poi è arrivata la giunta leghista di Massimiliano Fedriga, nel 2018, e il finanziamento fu eliminato. Da allora ci siamo inventati di tutto per portarlo avanti: raccolta fondi, sostegno delle piccole amministrazioni comunali, perché nonostante la politica cercasse di ostacolarli, le scuole continuavano a chiedere gli interventi. Certo, non riusciamo più a far fronte alle richieste che arrivano da tutto il Friuli, anche le scuole devono calmierare: non più di cinque classi per scuola. Altrimenti non si riesce a coprire le spese. C’è questa sorta di doppio binario: da una parte la politica che vuole impedire, sulla pelle degli adolescenti lgbt, il nostro corso e dall’altra c’è la scuola che sente il bisogno di inserirlo nell’attività curriculare.

Adesso con il ddl Valditara, spinto anche questo dalla Lega, cosa potrebbe succedere?

Non so dove si possa arrivare. Vietare di parlare è un messaggio orribile. Significa vietare l’esistenza stessa delle persone Lgbtq nelle scuole: devastante.

Quindici anni sono il tempo di mezzo di una vita: separano un bambino che entra alle elementari da un ragazzo che esce dal liceo.

Ogni volta che entriamo in classe si rinnova la voglia di conoscersi, di ascoltare. Il cambiamento avviene anche nel linguaggio: gli studenti imparano a usare correttamente parole come “gay” o “lesbica”, non per insultare, ma per parlare di persone reali. È una trasformazione lenta, ma profonda, perché legittima le identità all’interno della scuola. In classe resta l’insegnante e lì vengono fuori esperienze che toccano sempre più di qualcuno, non solo perché hanno un parente, un amico che si riconosce come gay o lesbica. È un percorso che porta a una crescita. Immagini se avessimo potuto farlo nella scuola degli anni Ottanta. Il fatto che questi temi possano essere discussi apertamente, con un linguaggio corretto, dà fastidio. Perché parlare delle identità, parlare di persone trans, gay, lesbiche, all’interno dell’istituzione scuola, le legittima. È importantissimo per contrastare l’odio.

La destra vi accusa di entrare nelle scuole e fare chissà cosa. Alcuni deputati parlano addirittura di “corruzione”.

Noi fin dall’inizio abbiamo riflettuto su questi due aspetti: uno scientifico, con riferimento alla letteratura scientifica e alle evidenze empiriche. Gli psicologi rappresentano l’aspetto della conoscenza dei contenuti, dell’uso di un linguaggio corretto e della gestione dinamica della classe. Dall’altro, è fondamentale - ce lo dice la ricerca - l’ipotesi del contatto: mettere volontari portatori di interesse, che hanno vissuto sulla propria pelle certe esperienze, riesce a dare umanità, a costruire una relazione sempre legata al soggetto, che è fondamentale. Dire che queste persone sono mostri e non devono entrare è assurdo: hanno un ruolo centrale nel cambiamento, hanno lottato, si sono impegnate. La scuola è luogo di riflessione politica, nel senso più alto, di comunità che riflette sui propri limiti e sulla capacità di trasformarsi. Le persone che parlano di sé agiscono per un cambiamento, perché nella nostra società, soprattutto in contesti scolastici dove prevalgono modelli binari maschili, è molto diffusa una certa rigidità. C’è un articolo della Costituzione, il 33, che parla di libertà di insegnamento e le scuole hanno autonomia per legge: limitarla è uno scivolamento per la democrazia.

Valditara insiste affinché non vengano realizzate attività “afferenti a teorie e concetti relativi all’identità e alla fluidità di genere”. Che ne pensa?

È un discorso politico accentuato. L’identità di genere non è una categoria dello spirito, ci sono persone reali che vivono con sofferenza perché vivono in una società che non li accetta. Però c’è un mondo della scuola che si sta muovendo. Ci sono imprenditori politici dell’omotransfobia che fanno carriera politica sulla pelle della comunità Lgbt. Questo governo pensa di cancellare le identità, ma troverà resistenza, perché nasce dalle persone, dalle famiglie, dagli insegnanti che iniziano a capire cosa sono questi progetti e sanno benissimo cos’è l’identità di genere. Il nostro progetto, oltre al lavoro in classe, punta anche alla formazione del personale della scuola, sull’educazione sessuale e affettiva che deve partire dalla scuola dell’infanzia. Come docenti abbiamo una responsabilità civile su questi temi.

Se potesse rivolgersi al presidente Mattarella, cosa direbbe?

Noi il 17 maggio, giornata mondiale contro l’omotransfobia, ogni anno sentiamo il presidente che, con parole concrete – e le parole sono importanti – richiama tutti alla responsabilità. L’appello al presidente della Repubblica è quello di non dimenticare chi, nella scuola, ha bisogno di supporto, riconoscimento, inclusione. L’istituzione deve essere al fianco delle persone più fragili. Sono tanti i casi di suicidio e tentato suicidio, ma non c’è solo l'ultimo atto. C’è il diritto al benessere, ma c’è anche bisogno di un’istruzione che non dimentichi cosa vuol dire sostenere anche chi, nelle scuole, sta facendo questo lavoro per il futuro. Di fronte all’omotransfobia montante, sappiamo che possiamo contare sulla posizione ferma del presidente della Repubblica, anche questa volta.

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