Il 14 giugno 2023, a 47 miglia dalla costa greca, il peschereccio Adriana affonda portando con sé oltre 600 persone. È il naufragio più grave nella storia recente del Mediterraneo. Le vittime erano partite dalla Libia, stipate in condizioni disumane: uomini sotto coperta, donne e bambini – almeno un centinaio – rinchiusi nella stiva. Di quelli non si è salvato nessuno. Solo 104 superstiti, che navigavano in posizioni più fortunate.

La barca era alla deriva da ore, visibile a Frontex già dalla mattina del 13 giugno. Per 15 ore le autorità greche hanno monitorato senza intervenire. Poi, secondo decine di testimonianze, un tentativo di traino operato dalla motovedetta della Guardia costiera ellenica provoca l’affondamento.

Le indagini

Le indagini forensi coordinate da Forensic Architecture e giornalisti di The Guardian e ARD, premiate con il Daphne Caruana Galizia Prize, hanno demolito la versione ufficiale: la barca non era in movimento autonomo, come sostenuto da Atene, ma quasi ferma da oltre 90 minuti. I sopravvissuti raccontano che la motovedetta ΠΠΛΣ 920 ha legato una cima alla prua e ha tentato di trainare il relitto sovraccarico, causandone il ribaltamento. A bordo, già prima dell’affondamento, si moriva di disidratazione. In mare calmo, la Guardia costiera ha lasciato morire.

Dopo la strage, le autorità greche si muovono con lentezza e opacità. I telefoni dei sopravvissuti vengono sequestrati. Le telecamere della motovedetta risultano spente o i dati non disponibili. I telefoni degli ufficiali vengono acquisiti solo due mesi dopo, a settembre, e l’analisi forense non risulta completata neanche un anno dopo.

Intanto, nove sopravvissuti egiziani, i “Pylos 9”, vengono arrestati e accusati di traffico e omicidio. Verranno assolti solo nel maggio 2024, ma non nel merito: il tribunale di Kalamata si dichiara incompetente territorialmente perché l’affondamento è avvenuto in acque internazionali.

Il 19 giugno 2025 arriva una svolta: il Tribunale navale del Pireo rinvia a giudizio 17 membri della Guardia Costiera, tra cui alti ufficiali, con accuse pesantissime: naufragio, omicidio colposo plurimo, mancato soccorso, esposizione a pericolo mortale. È un primo passo. Ma la procura ha escluso altri quattro ufficiali di vertice, tra cui l’attuale comandante, giudicati «non formalmente competenti» nel momento dei fatti. I legali dei superstiti e delle famiglie annunciano ricorso: «Non si è trattato di un incidente, ma di un crimine durato 15 ore».

La strage di Pylos più che un incidente è il prevedibile risultato di un sistema. Quattro mesi prima, il 26 febbraio 2023, a Steccato di Cutro, almeno 94 persone, tra cui 35 bambini, muoiono a poche decine di metri dalla costa italiana. Anche in quel caso le autorità erano state allertate ore prima. Anche in quel caso nessun salvataggio. Anche in quel caso si parlò di tragedia, mai di responsabilità.

Da Pylos a Cutro

Pylos e Cutro condividono un’identica dinamica: omissioni strutturali, narrazioni ufficiali contraddette dalle testimonianze, criminalizzazione delle vittime, assenza di un sistema europeo di soccorso. Entrambi i disastri sono stati innescati – e poi gestiti – come operazioni di deterrenza e non come emergenze umanitarie. E a nessuno sembra importare che Frontex, l’agenzia europea presente in entrambi i casi, abbia ignorato la gravità delle situazioni, rinunciando a emettere allarmi di soccorso.

La giustizia, quando arriva, arriva a pezzi. I vertici sfuggono alle indagini, le prove vengono ritardate, i testimoni zittiti. L’Ue continua a collaborare con la Grecia, promettendo fondi e chiudendo un occhio. I funerali non si contano più e intanto le responsabilità restano impunite. Le famiglie delle vittime di Pylos chiedono che vengano indagati anche i livelli superiori della catena di comando: perché chi comanda ha ordinato, chi ordina ha scelto, e chi sceglie ha reso possibile una strage.

Il Mediterraneo è il mare delle scelte. Quelle che decidono chi può vivere e chi può morire. La strage di Pylos è la materializzazione di un ordine europeo che ha smesso da tempo di soccorrere. E se oggi qualcuno finisce sotto processo è solo perché il crimine è stato troppo evidente per essere ignorato. Le vittime non sono morte al largo, inghiottite dal mare.

Le vittime di Pylos –  come quelle di Cutro – hanno sporcato di sangue i tappeti a Bruxelles, dove si decide di sabotare i salvataggi. Intanto la linea di comando resta intatta. Ed è quella che continua a firmare le condanne a morte in acque internazionali.

Fino alla prossima strage troppo evidente per essere derubricata come annegamento.

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