«E un bel giorno Genova si svegliò blindata – scriveva Diario nell’agosto del 2001 –. Mentre Berlusconi sistemava le fioriere e vietava di stendere i panni, piccole e medie aziende di carpenteria di Liguria e basso Piemonte adempivano all’ordine di trasformare la Superba in un ghetto». Le numerose fotografie, unite alle testimonianze orali, raffigurano Genova prima degli scontri come uno spazio cittadino desertificato, con poche macchine e gli scuri abbassati. Barriere divisorie e file di container a impedire il passaggio e delimitare una zona rossa impenetrabile in cui difendere lo svolgimento del summit del G8.

Le giornate di Genova sono impresse nella memoria collettiva come un momento di violenza consumatosi in una città devastata dal vandalismo. Le fotografie e le videoriprese delle violenze dei manifestanti e della polizia saturarono e monopolizzarono lo spazio mediatico. Il risultato di tutto ciò, però, fu l’opacizzazione pressoché totale dei contenuti politici che muovevano il Genoa Social Forum. Nel luglio 2001, infatti, arrivava a maturazione un processo di organizzazione dal basso per una forma di globalizzazione alternativa a quella economica neoliberista. Un’istanza che è sopravvissuta, invece, come un fiume carsico, ed è tornata ad affiorare in tempi recenti.

Il movimento dei movimenti

“Il movimento dei movimenti” — così veniva chiamato dagli attivisti della rete — ambiva a estendere le sue maglie in uno scenario globale, abbracciando un caleidoscopio di temi e istanze di rivendicazione: pacifismo, lotte contro la crisi climatica, autodeterminazione delle comunità indigene oppresse, battaglie per i diritti delle donne, per un più equo utilizzo delle risorse globali e contro lo sfruttamento dei territori e della mano d’opera nei paesi di secondo sviluppo.

Ci addentriamo in questo modo in un pezzo di storia che precede i fatti stretti dell’anti G8 di Genova e che serve a incastonarli, in tutta la loro gravità, nel processo più ampio di un laboratorio politico. Nel 1990 a Bruxelles si erano verificate delle manifestazioni di agricoltori contro la World Trade Organization. Nel 1994 in Chiapas gli zapatisti avevano iniziato a organizzare incontri antiliberisti, catalizzando i portavoce di altre minoranze oppresse. L’intenzione era quella di creare occasioni di incontro in cui organizzare le rivendicazioni per una globalizzazione alternativa, così come sarebbe avvenuto a Seattle nel novembre 1999 e poi dal 22 al 25 gennaio 2000 a Porto Alegre, in Brasile, con il primo forum sociale mondiale.

Libertà violate

Tornare a riflettere su Genova e dintorni, venti anni dopo, impone dunque di interrogarsi sulle risorse di pensiero e di progetto che stavano in campo andando verso il controvertice e quelle che sono rimaste “uscendo da Genova”, tra il 22 e il 23 luglio 2021. Sollecita a chiedersi quanto di quel vocabolario avrebbe trovato posto nell’agenda culturale e politica internazionale dopo le 8.49 (ora di New York) di martedì 11 settembre 2001. Esorta a misurare la consapevolezza, maturata soprattutto da quel vasto mondo che riguarda la cultura politica delle sinistre di governo, della posta in gioco di quel passaggio storico.

La sensazione è che gran parte della riflessione pubblica si giocò allora sulla violenza subìta, sulla libertà violata, sulla sospensione dello stato di diritto nei giorni del G8. Così pare, per esempio, per il profilo di discussione proposta da Micromega nel numero immediatamente successivo alle giornate di Genova (il numero 4 del 2001). Una reazione commisurata alla gravità delle scene ma che per certi aspetti lascia in secondo piano i temi, che a lungo nel dibattito pubblico, soprattutto in Italia, rimasero sottotraccia per tornare a prendere corpo un decennio dopo, in vista dell’appuntamento di Expo Milano 2015.

Cambiare il registro mentale

Il tema era molto semplice e le domande ineludibili: è possibile pensare lo sviluppo nel Ventunesimo secolo secondo i princìpi, i canoni e le categorie con cui era stato pensato, propagandato e praticato nel corso del Novecento? Quali erano le parole e le politiche con cui provare a dare forma rinnovata a una idea di sviluppo che non dimenticasse «gli ultimi»?

Sono i temi su cui, per esempio, invita a riflettere l’economista Jacques Généreux, sulla rivista Esprit (Fonte), a partire dalle problematiche poste dal Manifeste pour l’économie humaine, il documento che nasce dal confronto di Porto Alegre nel gennaio dello stesso anno (un testo in cui tra le prime 200 firme di intellettuali, economisti, sociologi, politologi scienziati, biologi non troviamo alcune esponente dell’intellettualità italiana). Quel Manifesto chiede un cambio di registro mentale, prima ancora che politico. «Pensare a sinistra la politica dell’economia – scrive Généreux – è prima di tutto considerare che c’è sempre un’alternativa».

La fine della storia

Forse un tema sta proprio lì: se nei movimenti, nelle associazioni, tra gli antagonisti, nella vasta area del no-profit allora si registrava fermando, l’impressione è che la sinistra riformista e di governo dovesse – allora e ora – fare i conti con una sfida apparentemente banale, eppure gigantesca: chiudere con la convinzione della «fine della storia». Ovvero mettere da parte il ritornello con cui erano stati archiviati gli anni Novanta del secolo scorso, come sintesi della lenta parabola discendente dell’agonia del Sessantotto, e che tutto il realismo politico anche a sinistra ha accolto come verità indiscussa.

Oggi si afferma, prepotente e non più rimandabile, la questione della giustizia globale. Se guardiamo ai nuovi movimenti di portata internazionale – dalle “primavere arabe”, all’ambientalismo dei Fridays For Future, alle rivendicazioni antirazziste della rete Black lives matter – ritroviamo l’urgenza di alcuni temi già portanti per l’agenda politica del Social Forum. Resta da capire se questa molteplicità di analisi, proposte, istanze possa superare la frammentarietà e farsi oggi programma e progetto di un soggetto politico che torni a dire “un altro mondo è possibile”.

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