Il governo e la protezione civile hanno fatto qualche passo avanti nell’accoglienza dei profughi in arrivo dall’Ucraina, ma rimangono sia il problema psicologico sia quello sociale, difficili da contenere nel lungo periodo. È passato più di un mese dall’inizio della guerra e stanno emergendo criticità per molti dei 75mila profughi arrivati in Italia, per lo più ospitati da famiglie.

Dopo una grande ondata di solidarietà, la mancanza di un sostegno a chi ha offerto la propria casa per l’accoglienza sta iniziando a pesare: «Finché vengono accolte una o due persone è ancora gestibile, ma quando iniziano a essere tre o quattro occorre un supporto», spiega Giorgio Capitanio, responsabile progetti Italia dell’ong Avsi. «Bisogna tenere presente che accogliere gli ucraini non è immediato», continua, «e che queste persone arrivano da situazioni di stress psicologico. Le famiglie che stanno accogliendo stanno facendo un bel lavoro ma devono essere supportate».

Non si tratta solo della mancanza di un sostegno economico, ma «di condivisione della fatica», dice Capitanio. In alcuni casi seguiti da Avsi, le famiglie che si erano rese disponibili, dopo qualche giorno, hanno chiesto che le persone ospitate venissero ricollocate. Così anche un sindaco nella provincia di Torino, come riportato da La Stampa, ha segnalato al prefetto che una famiglia, dopo aver accolto, ha chiesto l’allontanamento dei profughi.

La tensione psicologica viene manifestata anche da parte «degli ucraini che, non avendo ben chiaro cosa succederà nelle prossime settimane, sono in una situazione di stand by», spiega il responsabile dell’Avsi, sottolineando che non hanno elementi per decidere se tornare o rimanere, e quest’incertezza genera ansia.

Il ritardo nell’adozione delle misure non aiuta, tanto che alcuni profughi arrivati in Italia hanno deciso di ripartire per la Francia o la Polonia. «Mi hanno riferito che alcune persone sono anche tornate in Ucraina, nelle zone non bombardate, per ricongiungersi agli uomini che sono al fronte», dice Capitanio, che spiega che gli ucraini in fuga si stanno organizzando: hanno con sé la mappatura dei servizi nei vari stati europei.

Le difficoltà

Una delle criticità maggiori è l’estremo ritardo del decreto che disciplina la protezione temporanea, introdotta a livello europeo il 4 marzo. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha firmato solo ieri il dpcm che prevede una protezione della durata di un anno, a favore degli sfollati dal 24 febbraio, e prorogabile per ulteriori sei mesi o un anno al massimo.

Misure attese da settimane, di fondamentale importanza per l’accesso al mercato del lavoro, all’assistenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale, all’istruzione. Avsi ha infatti ricevuto molte richieste da aziende disposte a offrire lavoro ai profughi, ma senza aver regolarizzato la loro situazione per loro non era possibile lavorare. E «molte donne ci stanno chiedendo di aiutarle a trovare un lavoro», sottolinea il responsabile progetti per l’Italia dell’ong.

Allo stesso modo, mancava la possibilità di accesso al sistema sanitario nazionale, necessaria vista l’alta percentuale di minori – 29.222 su 75.115, in base ai dati del 29 marzo, quasi il 40 per cento – e di anziani, che hanno bisogno di cure.

Anche tra chi scappa dalla guerra ci sono situazioni diverse: c’è chi ha vissuto sotto le bombe e porta il trauma con sé, e c’è chi ha avuto una storia personale meno drammatica ed è già disposto a lavorare e a ricominciare. «Visitando una casa», racconta Capitanio, «l’anziana della famiglia, nel momento in cui è passato un aereo in lontananza, si è nascosta sotto il tavolo».

È infatti essenziale una tutela psicologica: l’accoglienza non significa solo dare vitto e alloggio ma anche, e soprattutto, creare una rete sociale che permetta a chi scappa di partecipare a pieno alla vita del paese e che dia tutti gli strumenti per affrontare il trauma, inclusa la mediazione culturale.

Per questo alcuni sindaci della provincia di Torino hanno evidenziato alla regione e alla prefettura che l’accoglienza è una cosa seria, perciò chi ha subito un trauma deve essere tutelato da professionisti. I sindaci dei piccoli comuni hanno quindi chiesto di non far cadere tutta la responsabilità su di loro.

L’insieme di queste difficoltà porta dunque a tensioni psicologiche sia per chi accoglie, sia per chi è accolto, e se non risolte alimentano una sorta di rigetto. «Non bisogna essere invasivi, non bisogna chiedere un giudizio politico. Magari a cena non si mangia insieme», dice Capitanio. E poi occorre fare attenzione al collocamento nelle famiglie. Secondo Avsi, occorrerebbero posti nei Cas, per una fase intermedia di colloqui affinché siano chiare le esigenze delle famiglie accoglienti e dei profughi.

I soldi non bastano

Il flusso sta diminuendo e in alcuni casi c’è chi è già andato via dall’Italia. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Interno, del 29 marzo, sono 75.115 le persone giunte finora, di cui 38.735 sono donne.

Ma i numeri dei sostegni disposti ieri dall’ordinanza della protezione civile, in base al decreto del governo dello scorso 22 marzo, sembrano non essere sufficienti.

Il sostegno economico a chi viene ospitato privatamente, fuori dal sistema di accoglienza statale, è arrivato con un mese di ritardo ed è limitato a 90 giorni: 300 euro mensili a persona con un incremento di 150 euro al mese per ogni figlio minore a carico, nel limite massimo di 54 milioni di euro, vale a dire una misura per circa 60mila persone, già meno di quelle entrate nel paese.

Mentre la Germania ieri ha comunicato di aver accolto 278.008 rifugiati, un numero probabilmente inferiore a quello reale, e più di tre volte superiore a quello italiano.

L’ordinanza di protezione civile ha poi disposto l’accesso al servizio sanitario nazionale fino a 100mila persone e un incremento delle strutture di accoglienza diffusa per un massimo di 15mila unità.

Qualche passo avanti è stato fatto, viste le ultime misure a favore dell’accoglienza diffusa, ma è una questione di sistema e di tempi: non c’è solo la parte economica, è essenziale in questo momento prendersi cura del lato psico-sociale, sia per chi accoglie, sia per chi è accolto, dato che nella maggior parte dei casi porta con sé il trauma di una guerra scoppiata improvvisamente.

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