Nelle ultime settimane sono state avanzate nuove proposte relative all’introduzione di una soglia massima di alunni con cittadinanza non italiana nelle scuole. Ne è venuto fuori un dibattito confuso e approssimativo, a partire proprio dalla definizione dei destinatari del provvedimento. Riguarderebbe tutti i ragazzi privi della cittadinanza italiana? Riguarderebbe solo coloro che non parlano bene la lingua italiana? E come si accerta tale livello di competenza? O è rivolto solo ai nuovi arrivati e non ai nati in Italia? E come si potrebbe garantire comunque il diritto alla scuola e a una scuola di prossimità in presenza di un simile sbarramento?

Non si tratta in realtà di approssimazione o confusione. Una discussione così pasticciata è strettamente legata alla lontananza dai contesti reali di chi prende parola in materia, insieme all’incapacità di confrontarsi seriamente con questioni sulle quali sono a disposizione dati statistici, letteratura scientifica, decenni di percorsi virtuosi e pratiche sedimentate negli ambienti didattici. Su tutti, un punto balza agli occhi: non è la prima volta che viene proposto lo sbarramento.

La circolare Gelmini

Anzi il cosiddetto “tetto” è stato già oggetto di un intervento ministeriale, vecchio addirittura di un quindicennio, perché venne introdotto con una circolare del 2010. Che cosa c’è scritto in quella circolare? Chi e perché la favorì? Perché oggi è importante riparlarne?

La circolare venne promossa dall’allora ministro Gelmini e firmata dal direttore generale per gli ordinamenti scolastici del ministero in data 8 gennaio 2010. Nei mesi precedenti diversi interventi politici avevano preparato il provvedimento: dalla mozione sulle cosiddette “classi ponte” promossa dall’allora capogruppo leghista alla Camera Roberto Cota alle ripetute esternazioni della stessa Mariastella Gelmini.

L’iniziativa era annunciata per “favorire l’integrazione”, ma in realtà si inseriva in un contesto di straordinaria accelerazione e rafforzamento di politiche securitarie e discriminatorie. Di fronte a grandi cambiamenti globali quali l’allargamento a est dell’Unione europea o la crisi economica mondiale, la risposta delle classi dirigenti sceglieva di caricare il mondo dell’immigrazione di colpe e responsabilità, non solo a destra.

Walter Veltroni, sindaco di Roma, affermava nel 2007 che prima dell’ingresso della Romania nell’Unione europea la città di Roma era «la città più sicura del mondo».

Negli anni seguenti il governo di centro-destra, insediatosi nel 2008, lanciava un ennesimo salto di qualità con il Pacchetto sicurezza. Si trattava di un insieme di norme destinate a far peggiorare in modo consistente le condizioni della popolazione di origine straniera, dal lavoro ai permessi di soggiorno alla detenzione amministrativa fino al tentativo (non riuscito, grazie alle proteste di medici e infermieri) di limitare il diritto di cura al pronto soccorso soltanto a chi potesse presentare un documento in regola. La circolare Gelmini rappresenta uno dei frutti più maturi di quella stagione. Tra l’altro, fu comunicata alla stampa e all’opinione pubblica a 24 ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, quando la questione del razzismo e dello sfruttamento esplose nella cittadina calabrese in modo durissimo.

Caduta dall’Eden

Nella sua formulazione fin dalle prime righe traspare un’immagine ben precisa della presenza di bambini e ragazzi di origine straniera nelle scuole. Tale presenza viene inquadrata come un elemento di grave e perdurante criticità, dal quale «conseguono insuccessi scolastici, abbandoni, ritardi nei percorsi di studio». Il documento è scritto facendo ricorso a un linguaggio accorto e prudente, nell’evidente timore di subire contestazioni. Ma il tono non riesce a mascherarne la sostanza: a pagina 3 si legge che «è indubbio che classi formate da alunni con livelli di scolarizzazione fortemente disomogenei – siano essi italiani o stranieri – possono tradursi in un oggettivo fattore di rischio di parziale o totale insuccesso formativo per tutti gli alunni coinvolti in tali situazioni».

La soluzione indicata dalla circolare è esplicitata a pagina 5: «Il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non potrà superare di norma il 30% del totale degli iscritti, quale esito di una equilibrata distribuzione degli allievi con cittadinanza non italiana tra istituti che insistono sullo stesso territorio».

Seguono dettagli su deroghe e possibili eccezioni, da autorizzare previo il parere dei direttori degli uffici scolastici regionali.

Il documento si dilunga poi sulle modalità organizzative da mettere in campo per supportare le scelte dei dirigenti scolastici nella formazione delle classi, con il coinvolgimento degli enti locali, delle realtà del no-profit, degli enti preposti alla formazione e alla valutazione.

All’epoca alcune voci, provenienti soprattutto dal sindacalismo confederale, misero in evidenza come ci fosse una contraddizione tra gli slogan del governo e la circolare applicativa, apparentemente meno ideologica e più pragmatica.

La sostanza che attraversa la circolare ne rivela comunque la vera natura: il presupposto di fondo è che le trasformazioni sociali e culturali innescate anche nella scuola dalla crescita dell’immigrazione rappresentino un elemento di grave e pericolosa alterazione di un equilibrio, una sorta di caduta da un “eden” nel quale la scuola italiana era felicemente collocata prima dell’arrivo dei bambini e dei ragazzi figli dell’immigrazione. Lo stesso governo e lo stesso ministro tra l’altro mentre con una mano nella circolare auspicavano la cooperazione tra scuola e territorio – e sottolineavano l’importanza di contrastare la dispersione scolastica – con l’altra mano mettevano in atto uno dei più grandi processi di taglio del personale, di riduzione dei finanziamenti e di dimensionamento della storia repubblicana, con centinaia di migliaia di cattedre cancellate e accorpamenti di classi e di interi istituti.

L’impatto del linguaggio

Nella realtà, la lettera della circolare del 2010 è stata applicata in maniera estremamente limitata. L’intera filiera della pubblica istruzione – dagli uffici scolastici regionali ai dirigenti agli insegnanti al personale Ata –  ha di fatto continuato a lavorare facendo a meno del bilancino percentuale. Sono le cittadine e i cittadini stranieri e le rispettive famiglie ad aver dovuto subire sulla propria pelle non tanto l’applicazione pedissequa del provvedimento quanto l’impatto del linguaggio e del dibattito che lo ha preceduto, impostato per l’ennesima volta su sbarramenti, limitazioni di accesso, diritti differenziati. Continuando a dover fare i conti, come tutto il resto della popolazione, con il funzionamento quotidiano della scuola, in una fase di tagli e licenziamenti.

Oggi, a quasi 15 anni di distanza, quella stagione è lontana e vicina, allo stesso tempo. Lontana perché nel frattempo i protagonisti di quella fase sono quasi tutti usciti dalla scena pubblica e perché nel frattempo nonostante i tentativi di limitazione e differenziazione, il mondo dell’immigrazione ha attraversato in modo sempre più diffuso la scuola italiana. Vicina perché oggi si ritorna a parlare di tetti, soglie di accesso e barriere, perché i tagli e i dimensionamenti nella scuola sono all’ordine del giorno, perché in tempi di campagna elettorale risulta sempre molto facile individuare nell’immigrazione il nemico pubblico di turno.

Il mondo della scuola, con pazienza e tenacia, continuerà a lavorare per favorire l’accesso indiscriminato all’istruzione. Non sappiamo per quanto tempo ancora potrà sopportare forzature e prepotenze.

© Riproduzione riservata