C’è il caso di Senghour, il ragazzo senegalese che ha un contratto di collaborazione domestica per pochissime ore al giorno e che ha avuto, più di recente, anche una proposta di lavoro per il comparto edilizio, ma non può accettarla, perché dovrebbe essere iscritto all’ufficio provinciale del lavoro ed essere titolare dello Spid (il sistema pubblico di identità digitale) che presuppone il possesso della carta di identità o del permesso di soggiorno e che, dunque, non può lavorare. E c’è il caso di Danja, ragazza albanese che ha terminato il suo impiego come collaboratrice domestica presso un datore di lavoro, ma non può ricevere, per il momento, un nuovo impiego e soprattutto un nuovo contratto, perché risulta ancora in atto la procedura di emersione dalla situazione di irregolarità attivata qualche mese fa presso la prefettura di Taranto.

Sono i migranti sospesi nel limbo. I destinatari del decreto legge n.34 del 19 maggio 2020 che, all’articolo 103 del cosiddetto “decreto Rilancio”, aveva previsto l’emersione dei rapporti di lavoro nei settori dell'agricoltura, del lavoro domestico e dell'assistenza alla persona e che invece ha trasformato i migranti in “ostaggi” della burocrazia italiana. Perché più di qualcosa, evidentemente, non ha funzionato. Ma andiamo con ordine.

La procedura complicata  

Secondo quanto aveva previsto il dettato normativo, la regolarizzazione sarebbe dovuta avvenire attraverso due canali: il primo che riguardava l’emersione da un rapporto di lavoro irregolare o l’instaurazione di un nuovo rapporto lavorativo con il cittadino straniero, con la domanda che doveva essere presentata dal datore di lavoro e inoltrata tramite il portale del ministero dell’Interno; la quale, poi, doveva essere esaminata dalla prefettura competente attraverso lo sportello unico immigrazione.

Successivamente, dopo aver verificato la correttezza della documentazione allegata, la prefettura avrebbe dovuto convocare l’impresa e il lavoratore per sottoscrivere il contratto di soggiorno e consegnare il kit postale precompilato da inviare all’ufficio immigrazione della questura per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Il secondo canale di regolarizzazione, invece, era rivolto direttamente ai cittadini stranieri che risultavano “irregolari” alla data del 31 ottobre del 2019 e che potevano dimostrare di essere già stati impiegati nei settori dell’agricoltura, del lavoro domestico, dell’assistenza alla persona. In tal caso, il cittadino straniero, secondo la norma prevista dal comma 2 dell’articolo n. 103 del “Decreto rilancio”, avrebbe dovuto presentare, autonomamente, la domanda di rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi all’ufficio immigrazione della questura competente.

I numeri dell’esclusione

Questo sarebbe dovuto accadere nella teoria normativa. Invece, nella pratica, secondo i dati ottenuti dal Ministero dell’Interno e contenuti in un dossier realizzato dalla Campagna Ero Straniero (formata, tra gli altri, da Arci, Asgi, Caritas, Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche, Radicali Italiani) «l’esame delle pratiche relative alla regolarizzazione degli stranieri presenti sul territorio versa in un ritardo enorme e, a sei mesi dalla chiusura della finestra per accedere alle diverse procedure di regolarizzazione previste, in tutti i territori considerati la situazione appare grave, con pochissime eccezioni».

Si legge nel report: «A Roma, al 31 gennaio, su un totale di 16.187 domande ricevute, nessuna pratica era arrivata alla fase conclusiva della firma del contratto di soggiorno. La prefettura, vista l’emergenza sanitaria, stima di poter effettuare in sicurezza nei propri locali 60 convocazioni alla settimana. Di questo passo, ci vorranno oltre 5 anni per concludere le procedure di emersione in corso». E ancora: «a Milano, a metà febbraio su oltre 26.000 istanze ricevute in totale, 289 pratiche risultano in istruttoria e non c’è stata ancora nessuna convocazione in prefettura. Si sta procedendo con 16 convocazioni a settimana».

Per questo, hanno spiegato le organizzazioni, «in questo caso abbiamo calcolato che servirebbero più di 30 anni per portare a termine tutte le domande di emersione». La situazione è altresì drammatica anche negli altri territori. Vedi Caserta, provincia caratterizzata storicamente dalla presenza di lavoro nero e caporalato: dove a metà febbraio, a fronte delle 6.622 domande di regolarizzazione ricevute dalla locale prefettura, non è ancora stato rilasciato alcun permesso di soggiorno. E la provincia di Reggio Calabria, anch’essa caratterizzata dalla forte presenza di lavoratori agricoli stagionali spesso costretti a lavorare in nero perché irregolari. Qui, la locale prefettura ha stimato di poter ricevere nei propri locali 10 persone al giorno e, con questo ritmo serviranno altri sei mesi per chiudere tutte le pratiche. Più in generale, è stato calcolato che in tutta Italia esistono 200mila persone che vivono ancora sospese in un limbo, ostaggio della burocrazia, ancora in attesa di sapere se la propria domanda di emersione andrà a buon fine. Attualmente, sono quaranta le prefetture italiane che non hanno rilasciato alcun contratto di soggiorno.

Le conferme degli addetti ai lavori 

«Siamo di fronte a persone regolarmente presenti sul territorio a cui viene, di fatto, impedito di lavorare e in alcuni casi di avere persino l’assistenza sanitaria. Accade che molti di loro continuano ad essere costretti a lavorare in nero, in condizioni non ottimali, nella speranza che prima o poi arrivi il loro turno per la regolarizzazione», racconta a Domani Enzo Pilò, presidente dell’associazione Babele che si occupa da più di un decennio della tutela di migranti e richiedenti asilo in Puglia, altro territorio gravato dal fenomeno dello sfruttamento di manodopera migrante, in agricoltura, specialmente, come hanno peraltro dimostrato, negli anni, anche diverse inchieste giudiziarie.

Dice Pilò: «Ci sono delle persone che abbiamo aiutato nella presentazione della domanda ad agosto, e che a marzo dopo sei mesi ancora non hanno ricevuto alcuna risposta dalla prefettura di Taranto. Tra le decine di pratiche che ho preparato, soltanto una è stata evasa, e quindi soltanto una persona, per ciò che riguarda la mia esperienza, è stata convocata per ricevere il contratto di soggiorno». E conclude: «La questione che si pone come urgente è la necessità di un intervento ministeriale che possa sbloccare questa situazione di stallo delle prefetture, concedendo un permesso di soggiorno provvisorio per attesa di lavoro a tutti gli stranieri che sono sospesi in questo limbo».

Daniela Lafratta, avvocata specializzata in diritto degli stranieri e presidente dell’associazione di volontariato, Ohana, conferma a Domani i tempi lunghissimi della procedura di regolarizzazione e riferisce che «i problemi più rilevanti riguardano i casi in cui il datore di lavoro è morto nelle more della procedura, abbastanza frequente soprattutto nel settore dell’assistenza domestica agli anziani». E ancora, racconta Lafratta: «È questo il caso di un ragazzo del Bangladesh, che aveva avviato la procedura a luglio, ma poi il datore di lavoro era morto ad agosto, il quale avrebbe diritto di ricevere il permesso di soggiorno per attesa occupazione, peccato che da allora non sia mai ancora convocato dalla prefettura competente».

«Le altre problematiche evidenti, poi, riguardano i casi delle persone assunte con contratti a termine che nel frattempo sono scaduti», rileva l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. E ancora: «i profili di criticità della sanatoria sono molteplici. A partire dai tempi lunghissimi per le convocazioni. La cosa assurda è che lo Stato ha previsto un meccanismo per sanare le situazioni di irregolarità, ma di fatto le sta aggravando. C’è un effetto di stallo nella procedura». Eppure, la soluzione c’è già. È la proposta di legge di iniziativa popolare presentata dalla stessa Campagna Ero Straniero e sostenuta da 90mila firme, che giace da tre anni in un cassetto della commissione Affari costituzionali della Camera. Mentre 200.000 stranieri continuano a rimanere in un limbo, divenuti ostaggio della burocrazia italiana. 

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