Basterebbe sostituire le date, mettere dicembre 2021 al posto di novembre 1898. Così potremmo scoprire, semmai ce ne fosse bisogno, che la mafia non cambia mai. La città di Palermo, più di 120 anni fa, era divisa in otto zone criminali ciascuna delle quali aveva una famiglia e ciascuna famiglia aveva un capo.

Sono otto, anche oggi, i mandamenti di Cosa Nostra nella capitale siciliana. E pure i nomi sono sempre quelli, gli stessi citati più di un secolo fa dal questore Ermanno Sangiorgi al procuratore del re.

Nella borgata di Mezzomonreale c’erano i Di Trapani e i Vitale. Ai Pagliarelli c’erano i Motisi, a Santa Maria del Gesù i Bontà, nel quartiere dell’Olivella c’erano i Noto, fra gli orti di Brancaccio i Pennino. Una trentina di informative custodite nell’archivio generale dello stato fanno il ritratto di una Palermo mafiosa ferma, immutabile.

Ecco perché un generale di divisione dell’Arma dei carabinieri si domanda se avessimo davvero bisogno di Tommaso Buscetta, il famoso pentito che nel 1984 si è confessato con il giudice Giovanni Falcone, per avere consapevolezza dell’esistenza di un’organizzazione segreta dedita al delitto e all’arricchimento illegale. Sapevamo già tutto.

Ed è proprio questo, Sapevamo già tutto, il titolo del libro firmato da Giuseppe Governale, ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (il famoso Ros) ed ex direttore della Direzione investigativa antimafia (la famosa Dia) che per la Solferino editore ha ricostruito la vicenda mafiosa in più di 300 pagine che si incrociano fra storia e attualità, un’analisi di ciò che lo stato ha fatto e di ciò che non ha fatto, della perversa relazione che si è irrobustita nel tempo fra mafia e istituzioni, di una guerra che non è ancora finita nonostante la struttura militare di Cosa Nostra si sia estremamente indebolita dopo le stragi del 1992.

La malapianta che si rigenera

Ma è una partita che si gioca ancora, la malapianta si rigenera all’infinito. Anche perché, la mafia, abbiamo cominciato a contrastarla tardi, tardissimo.

Riferimenti ai Borboni o ai moti dell’Ottocento e ricordi familiari, la strage di Portella della Ginestra e quel giorno dell’agosto 1977 «quando apprendemmo in tv dell’agguato al tenente colonnello Giuseppe Russo al bosco della Ficuzza e vidi gli occhi di mio padre, un appuntato dell’Arma appena andato in pensione, gonfi di lacrime e di rabbia».

È un libro scritto da un siciliano e che da siciliano coglie anche il non detto di una parlata, che decifra il mistero o l’inquietudine che si può nascondere dietro un’occhiata o un silenzio troppo prolungato.

È un libro scritto da un generale che conosce quell’altra Sicilia per averla affrontata sul campo di battaglia, prima come comandante dei carabinieri a Catania e poi nei reparti antimafia d’eccellenza.

È un avanti e indietro continuo dentro i cicli di questi conflitti e di queste tregue fra mafia e stato, dal delitto del marchese Emanuele Notarbartolo del febbraio 1893 all’assassinio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella avvenuto il giorno dell’Epifania del 1980, quasi un secolo di processi celebrati fuori dall’isola “per legitima suspicione” (legittimo sospetto), di spettacolari operazioni come quelle del prefetto Cesare Mori durante il fascismo, di mandanti eccellenti assolti con folle plaudenti per le clementi decisioni dei giudici.

In mezzo, fra i dossier del questore Sangiorgi – per la prima volta rivelati dagli storici Salvatore Lupo e John Dickie – e l’entrata in scena dei Corleonesi con la loro strategia stragista, c’è la seconda vita da carabiniere di Carlo Alberto dalla Chiesa, seconda in quanto era già stato inviato sull’isola per nove mesi nell’immediato dopoguerra a capo di una delle squadriglie del “Cfrb”, le forze repressione banditismo.

La seconda volta di Dalla Chiesa

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico anni '80 Carlo Alberto dalla Chiesa Carlo Alberto dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) è stato un generale e prefetto italiano. nella foto: Carlo Alberto dalla Chiesa Photo LaPresse Turin/Archives historical Hystory 80's Carlo Alberto dalla Chiesa in the photo: Carlo Alberto dalla Chiesa

«Dalla Chiesa era un po’ come Mori o Sangiorgi, era un comandante atipico», scrive il generale Governale raccontando come l’ufficiale – nell’arma il più amato di ogni tempo dalle truppe ma non dagli alti comandi – avesse imposto «il suo ritmo» nell’elaborazione del cosiddetto rapporto sui “114”. Tutti affiliati alla mafia palermitana a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, l’epoca di una Palermo felicissima dove i boss passavano solo per sbaglio dal carcere dell’Ucciardone.

Nomi famigerati – Buscetta, Bontate, Alberti, Greco, Citarda, Albanese – che ritroveremo anche negli atti del maxi processo istruito successivamente dal giudice Giovanni Falcone. E quel “sapevamo già tutto” che torna sempre, implacabilmente. C’erano tutti gli indizi che annunciavano il grande traffico internazionale di stupefacenti di Cosa Nostra nel rapporto dei “114”, c’erano anche tracce di una mafia che si era radicata a Milano, a Genova, a Roma e a Torino anche se a Palermo “non esisteva” e quella parola non veniva più citata nelle relazioni dei procuratori generali alle solenni inaugurazioni degli anni giudiziari.

Ma era un’altra Sicilia ed era un’altra Palermo. Il generale Governale la rievoca attraverso la sua adolescenza, la vita quotidiana in una città di mafia. L’imprenditore amico di quei galantuomini che, per l’acquisto di un garage troppo caro, dice con bonomia a suo padre «non si preoccupi, quando ce li ha me li dà». L’esercito di muratori e carpentieri che innalza i palazzi del "sacco” edilizio nel quartiere del Don Orione, in via Libertà intanto saltavano in aria con la dinamite le ville patrizie e i palmeti.

Un certo Salvo Lima

Quanti sussurri e quanti misteri: «Avevo dieci, dodici anni e nei discorsi sentivo parlare di un certo Salvo Lima; dicevano che era mafioso, ma all’epoca non capivo esattamente cosa significasse. A Palermo si viveva così, più o meno nell’indifferenza generale, le cose non si dicono mai apertamente..».

Pagina dopo pagina si arriva a Totò Riina «la cui figura non va banalizzata» per la sua ossessione di conquistare Cosa Nostra, conquistare Palermo, conquistare la Sicilia.

Il libro del generale cambia passo nelle ultime cento pagine. Cosa ci riserva il futuro? «Nei prossimi anni la prospettiva è di doversi confrontare nel nord con mafie che tenderanno a ibridarsi fra loro. Mafie che potrebbero nuovamente mutare, generando nuovi ceppi criminali in grado di adattarsi allo sviluppo della società e rendersi così ancora meno riconoscibili».

Ma forse più della mafia il pericolo viene dalla cultura mafiosa. E, non a caso, un capitolo, è intitolato “Il maledetto problema del vivaio, linfa vitale delle mafie”. Governale riferisce che, durante la sua esperienza da direttore della Dia, ha girato l’Italia per incontrare gli studenti da Marsala ad Aosta. Il tema era sempre uno: la mafia teme più la scuola o la giustizia?

Tornano ancora una volta i ricordi personali. L’incontro con alcuni studenti dello Zen, acronimo di Zona espansione nord, disvela la realtà dei quartieri più sventurati. «Sei mai stato al teatro Massimo?», ha chiesto a un ragazzo. No, mai. «Sai dov’è il porto?». No, non lo so.

La cultura delle borgate

Come se provenissero da un altro luogo, due Palermo diverse, in comune solo la “vicinanza”, la prossimità con il mondo mafioso. Il generale entra nel profondo della mentalità palermitana raccogliendo gli umori delle borgate, dei cortili, delle feste del patrono di quartiere con i neomelodici che cantano contro “gli infami” e inneggiano ai latitanti.

E cita Ciccio Mira, il fantastico personaggio dei film di Franco Maresco, impresario di spettacoli di piazza che organizzava i suoi concerti montando il palco proprio accanto all’abitazione del capoclan della zona. Il dialogo fra il regista Maresco e Ciccio Mira spiega quella mentalità più di cento saggi: «Ma se tuo figlio un giorno ti dicesse "Papà voglio fare il carabiniere”, sinceramente cosa gli diresti?. “Sincero? Lo caccerei di casa”...».

La mafiosità più rovinosa della mafia, più insinuante, più difficile da abbattere. Le ultime pagine analizzano l’emergenza Covid e i piani delle mafie. Per il momento sono in attesa, è una prima fase di studio: «Ma nella seconda fase, che si prospetta possa avere un’evoluzione temporale di cinque, dieci anni, scenderanno definitivamente in campo..e si butteranno a capofitto su un tavolo ben imbandito, ricco di pietanze ottime e abbondanti, quelle delle risorse del Pnrr». Il finale riannoda i fili e ci riporta all’inizio del libro e a un senso di smarrimento. Come se lo stato avesse paura di vincere contro la mafia.

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