Era il 3 febbraio 2021, quando la presidente Ursula von der Leyen presentava il Piano Europeo contro il cancro: quattro miliardi di stanziamento, dieci azioni (dall’informazione alla costruzione di reti) ma soprattutto un documento generale che svolgeva una riflessione in cui, al punto 3.3 era l’alcol a finire sotto accusa. Il titolo del paragrafo era “Ridurre il consumo dannoso di alcol” e subito, nel nostro Paese, è partita la cosa a definire cosa sia il consumo dannoso, dando per presupposto che viceversa esista un consumo NON dannoso: il cosiddetto consumo moderato strenuamente difeso come baluardo anche dal parlamento europeo che nel febbraio 2022 ha votato contro le informazioni in etichetta di carattere sanitario: i cosiddetti “health warning”, a cui ci hanno abituati le sigarette.

La giustificazione per respingere scritte quali “l’alcol aumenta il rischio di cancro” è stata semplicemente una applicazione della tecnica del polpo che intorbida le acque per scappare: mettere all’indice l’alcol non considera le scelte alimentari nel loro complesso e quindi non aiuta le persone.

Una bugia ripetuta in modo bipartisan è in grado di imporsi sui media mainstream, dando l’impressione che una difesa corporativa abbia scienza e ragionevolezza. Ma non è così e il pericolo alcol è assodato da decenni.

Così, quando a metà settembre la sezione europea dell’OMS ha diffuso un documento quadro per l’azione contro l’alcol in Europa, è partito un riflesso pavloviano, con un florilegio di affermazioni infondate e talora ridicole, perché incuranti di una evidenza scientifica indiscutibile: l’alcol, oltre a essere la prima causa di morte fra i giovani, a causa di incidenti , è un sicuro cancerogeno (classe 1 secondo lo IARC (come gli insaccati peraltro) sin dal 2012).

Le difese indifendibili

"Folle equiparazione Oms di alcol a sigarette”, “OMS: vino sotto attacco, a rischio 1,3 milioni di lavoratori”, “Il mondo del vino contro l'Oms: "Da ignoranti equipararlo ai rischi del fumo"”, “Cirio (presidente del Piemonte): vino è cultura, Oms sbaglia a chiamarlo alcol”.

Se riusciamo ad astrarci per un momento da un contesto storico e culturale in cui il vino è addirittura uno dei due elementi chiave della simbologia cristiana dell’Eucarestia, la situazione è quella straniante che si prova dinanzi a chi, semplicemente, nega la realtà perché non riesce a maneggiarla, perché contrasta così fortemente con l’idea di sé che si è costruitə da non essere accettabile senza che ciò implichi negare la propria identità. E così si spiegano le reazioni furibonde: “i circa 15 milioni di enoturisti che ogni anno percorrono le strade del vino italiane non sono degli alcolizzati cronici”. Su quali basi lo si afferma, per tutti gli enotuisti poi?

È persino ovvio, ma forse non inutile, chiosare che tutte le retoriche (per lo più interessate) del vino genuino cadono, quando si pone la minima attenzione a quello che la scienza ha stabilito da oltre un decennio, e dovrebbero lasciare il posto al pudore, se non altro di fronte ai tanti morti attestati.

La consapevolezza della differenza tra pericolo e rischio

Si può certamente ritenere che la difficoltà a maneggiare queste informazioni ormai fuori discussione (l’alcol è un cancerogeno sicuro e no, non importa come si fa il vino o quali additivi si impieghino legalmente: ciò che va considerato è l’alcol) abbia molto a che fare con la scarsa educazione scientifica degli italiani, facilmente preda di discorsi corporativi proposti da diversi tipi di lobby, perché non abituati a decidere per sé semplicemente sulla base di una valutazione complessa di molteplici elementi. In particolare, c’è l’incapacità di comprendere la differenza tra rischio e pericolo a rendere tutto più complicato.

Il consumo di alcolici ha in sé più di un pericolo: da quello immediato dell’incidente causato dalla alterazione a quello mediato del cancro eziologicamente (si tratta di sette tipologie di tumore) connesso al consumo di alcolici.

La probabilità che il pericolo di trasformi in evento effettivamente infausto (ovvero che effettivamente abbiamo un incidente o sviluppiamo un cancro derivante dal consumo di alcol) è ciò che si chiama rischio.

A questo punto, chiunque dovrebbe capire che una funzione di probabilità come quella richiamata dipende da frequenza ed entità di consumo: se è vero che NON esiste un consumo di alcol sicuro, è CERTAMENTE vero che quanto minore e occasionale è il consumo, quanto minore sarà il rischio delle conseguenze nefaste, anche senza considerare le differenti capacità di metabolizzare l’alcol, tra persona e persona, o le interazioni con la dieta individuale.
Esattamente, come esporsi al sole in estate aumenta il rischio di mutazioni delle cellule dell’epidermide: naturalmente il rischio che tali mutazioni abbiano un esito in un invecchiamento precoce o in un melanoma dipende da quanto ci si espone e da quale sia il nostro fenotipo. Esattamente, come andare a fare una scalata in corda su una parete in montagna: il rischio di un incidente dipenderà da quanto sia severa la via scelta, cattivo il tempo e preparato e allenato l’alpinista.

Dunque, quando si dice che il consumo di alcolici è pericoloso si dice senza dubbio il vero, ma quando si vuole dare l’idea che l’unica gestione del rischio possibile sia la deterrenza del consumo, si adotta una decisione che sebbene intuitiva non è necessariamente giusta. Svolgere attività che implicano un rischio, infatti, definisce la nostra identità ed estrinseca la nostra libertà, quotidianamente. A patto, però, che il rischio si accettato consapevolmente.

La specificità del vino

Nell’ambito degli alcolici, il vino presenta una specificità che deve essere tenuta in considerazione. Parliamo del fatto che nel vino (tranne limitate eccezioni come il Porto o l’Asti) l’alcol non lo decide il cantiniere ma la natura. Di norma, infatti, sono gli zuccheri fermentescibili presenti nell’uva a determinare la percentuale di alcol nel vino finito. Questo non è vero per la birra, i liquori i distillati, per i quali è una scelta produttiva umana a determinare con esattezza il tenore alcolico.

Quindi, se la strategia per ridurre il consumo di alcol in Europa fosse basata sulla tassazione in rapporto alla percentuale di alcol, questo risulterebbe senz’altro iniquo: un produttore di birra o di liquori, infatti, potrebbe agevolmente ridurre l’alcol per pagare meno, mentre un produttore di vino potrebbe farlo solo al prezzo di una dealcolazione: un processo invasivo rispetto all’equilibrio delle componenti del vino stesso e molto lontano dalla naturalità di una produzione che, nonostante certe retoriche, è tuttora, sempre e per ogni vino, incentrato sulla fermentazione da parte di saccaromiceti dello zucchero contenuto nell’uva.

Una modesta proposta alla filiera

Preso atto di quanto esposto, speriamo appaia evidente come l’equilibrio da ricercare sia quello tra

  1. la libertà dei consumatori di autodeterminarsi, rispetto alle scelte che definiscono la loro identità nel contesto culturale di riferimento: scegliere cosa mangiare o bere significa esercitare la propria libertà di espressione; 
  2. il giusto interesse degli stati europei (tutti con un sistema di sanità universale) a vedere ridotte le patologie e comunque le conseguenze sanitarie del consumo di alcol, senza peraltro nascondersi che esista una salute sociale a cui contribuisce anche il limitato consumo di sostanze psicoattive a scopo ricreativo;
  3. il diritto dei produttori di alcolici, e segnatamente di vino, a continuare la propria attività in modo sostenibile.

Dunque, un punto di equilibrio deve essere trovato e se - per timore di un effetto deterrente degli “health warnings” che la letteratura ci dice essere infondato, specie se guadiamo al tasso di fumatori tra i giovani - si aprisse a una tassazione in base alla percentuale di alcol, per i produttori di vino, specialmente quelli italiani, che oggi sono molto poco tassati, sarebbe un colpo difficile da assorbire. Molto meglio lavorare su una appropriata informazione ai consumatori, senza infingimenti, investendo anche in questo modo i denari che i consorzi spendono per la promozione, lavorando non per nascondere ciò che è vero ma per aiutare finalmente a comprendere ciò che è, ineluttabilmente, complesso. E così liberarsi definitivamente del sospetto di voler guadagnare senza preoccuparsi per la salute dei consumatori.

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