Il quotidiano Domani ha ospitato nelle sue pagine dedicate all’arte, dal 5 dicembre 2021 e per qualche domenica, un dibattito che ha messo al centro, anche dal punto di vista legale, soprattutto le opere d’arte antiche e moderne.

Il punto della questione girava infatti intorno al fatto che – da quando il paese si è dotato agli inizi del Novecento di una legislazione di tutela per quelle che venivano chiamate “le belle arti” -  la legge italiana (in particolare il Codice dei beni culturali e del Paesaggio) prevede che le opere ritenute d’interesse pubblico, a settant’anni della loro realizzazione da parte di un autore deceduto, possano essere notificate dallo Stato. Tradotto in conseguenze pratiche, vuol dire che tali opere sono sottoposte a tutto un regime vincolistico, di cui il vincolo più mal tollerato dai proprietari delle opere è senza dubbio l’impossibilità di far uscire definitivamente le opere dal nostro paese: perché restringendosi così il mercato a quello domestico, le opere non possono aspirare ad essere vendute a cifre importanti, in quanto difficilmente in Italia si trovano acquirenti così facoltosi.

Il collezionista Giuseppe Iannaccone ha quindi lanciato tramite Domani un appello per trovare una soluzione diversa, perché così non si può vendere all’estero: una riforma che può partire solo dal ministero della Cultura e dalle commissioni parlamentari.

Si tratta di un dibattito che porta con sé richieste che circolano da ormai tanti, troppi anni: il che fa pensare che vi siano delle resistenze di carattere strutturale nel sistema italiano, più o meno inscalfibili (una delle quali potrebbe essere il tema della discrezionalità amministrativa, che è un potere cui è difficile rinunciare).

A dimostrazione di questo, basti l’immenso, sacrosanto, ma faticosissimo lavoro che è stato portato avanti da una serie di operatori professionali del settore, più o meno gli stessi che hanno riacceso la discussione sulle pagine di Domani, che hanno lavorato per ottenere alla fine dei conti – dopo tanti, anche qui troppi anni di trattative - poche e spesso aggirabili, nonché non sempre del tutto condivisibili (mi riferisco alla soglia di valore), migliorie al Codice dei beni culturali e del Paesaggio.

Ma vi è di più, è un dibattito sicuramente giusto – anche perché, prima o poi, con l’avanzare degli anni, impatterà tutte le generazioni di artisti italiani, anche le attuali - , ma ritengo dovrebbe essere in parte allineato a questi strani tempi pandemici che stiamo vivendo.

Mi ha però colpito favorevolmente, nell’àmbito di tale dibattito, perché lo considero un punto di partenza da cui impostare ben altre azioni (concrete), il commento, di Mario Diacono (gallerista e scrittore – Domani, 18 dicembre 2021), secondo cui «tra tutti gli attori della tragicommedia chiamata notifica – collezionisti, galleristi, musei – ci si dimentica dei veri protagonisti dell’arte: gli artisti.

La notifica va essenzialmente abolita, sostituita dalla struttura della prelazione da parte dello stato di opere d’arte importanti che possano o rischiano di essere vendute fuori dall’Italia. Lo stato italiano, che non ha fatto nulla per nutrire e promuovere il lavoro degli artisti, giovani e meno giovani (borse di studio, grants, stipendi, spazi espositivi, viaggi di istruzione all’estero), reclama poi come patrimonio nazionale, praticamente di propria gestione, opere per le quali non ha fatto assolutamente nulla, negli ultimi centocinquant’anni, per aiutarne la creazione e promuoverne la conoscenza all’estero. Lo stato italiano si dà da fare e si organizza, o meglio disorganizza, per trattenere in Italia opere che hanno raggiunto un valore economico altissimo solo perché è stato il mercato internazionale a creare quel valore».

Ottima questione quella sollevata da Diacono: cosa ha fatto l’Italia per questi artisti, al punto che ora si arroga il diritto di condizionare la circolazione delle loro opere? Ovviamente nulla (o comunque molto poco, con qualche eccezione negli ultimi anni, i cui meriti e risultati però vengono amplificati nella narrazione mainstream).

Affinché quindi la storia non si ripeta, per il futuro non sarebbe allora più opportuno – e più in linea con questi tempi così duri, in cui le posizioni di fortunati possessori di opere d’arte di grandissimo valore, potrebbero sembrare non proprio urgenti- , avviare un dibattito per evidenziare quali azioni concrete si possano mettere in campo affinché le generazioni presenti e future di artisti visivi italiani siano realmente sostenute?

L’arte contemporanea

Mi vengono in mente non tanto azioni di richieste allo Stato di finanziamenti, premi e sostegni. Difficile chiedere, proprio ora, un generalizzato reddito per gli artisti, che sarebbe ovviamente bellissimo, in un mondo ideale (quello che sembra sempre esistere all’estero, dove però i modelli a volte difficilmente sono esportabili, se astratti dal contesto generale); o chiedere  benefici fiscali di qualunque genere (anche se il fiscale è e resta un settore perlomeno da riordinare con più intelligenza), in un momento in cui il Paese è a pezzi.

Punterei piuttosto su azioni di segno diverso, che incidano più nel profondo, innanzitutto nell’”armamentario” culturale dei cittadini italiani. Il resto, col tempo, verrà da sé, in termini di consumi e produzione culturale. Un investimento di lungo periodo, quindi, che richiede una volontà e una determinazione incrollabile per essere perseguito, ma non un investimento nel senso classico del termine.

Le azioni concrete potrebbero quindi essere le seguenti, e volendole riordinare riguardano le seguenti macro-categorie: i libri di testo per le scuole e gli istituti d’arte; la comunicazione dell’arte contemporanea; il rapporto tra il cinema e l’arte contemporanea; l’educazione, l’abitudine alla frequentazione assidua dell’arte contemporanea; i rapporti tra arte contemporanea e denaro.

I libri di testo

Annoso problema, per chi insegna nelle Accademie e negli Istituti e licei d’arte, quello dei libri di testo di cui avvalersi nei corsi di storia dell’arte contemporanea: non sarebbe inutile pertanto, da parte dello Stato investire e sostenere la pubblicazione di una nuovi testi.

Uno sforzo maggiore dovrebbe essere fatto, nelle facoltà di Giurisprudenza italiane, per formare una classe di giuristi che sia davvero all’altezza di un Paese che vanta uno dei più importanti patrimoni artistici e culturali al mondo, e che abbiano quindi una maggiore consapevolezza e dimestichezza non solo col diritto dei beni culturali.

Invece questo diritto viene diluito fin troppo, salvo rare eccezioni, in corsi più ampi di diritto amministrativo, e fino a qualche anno fa confinato addirittura al di fuori del perimetro della formazione dei giuristi, nelle Facoltà di conservazione dei beni culturali, dove per quanto interessati possano essere gli studenti, non potrà mai essere recepito del tutto, in tutte le sfumature, richiedendo una forma mentis giuridica.

Serve soprattutto la consapevolezza, da parte dei futuri giuristi, dell’esistenza di un vero e proprio corpus di norme che convenzionalmente chiamiamo diritto dell’arte, che è un insieme piuttosto articolato, trasversale a più discipline (diritto d’autore, diritto civile, diritto penale, diritto tributario, oltre al diritto amministrativo in cui si colloca il Codice dei beni culturali), che vanno declinate in modo peculiare quando si applicano ad un bene come l’arte (Il Dizionario giuridico dell’arte).

La comunicazione

Centrale è la questione della comunicazione. Sarebbe auspicabile che gli operatori del settore aprano al più presto una riflessione seria su questo tema: sui quotidiani mainstream appaiono (se e quando appaiono), modeste recensioni di mostre, spesso fatte più di gossip e di mondanità, che di veri e propri contenuti legati all’esposizione di turno.

Altrove, nei giornali e pubblicazioni di settore, a volte si nota un parlare oscuro, e tutto questo parlare volutamente non chiaro ha permesso il proliferare di professionalità altrettanto opache come i cosiddetti art advisor; di conflitti di interesse che non fanno di certo un buon servizio nelle scelte dei professionisti che gestiscono il settore, e di conseguenza nella scelta delle opere e degli artisti da mostrare (mentre è davvero cruciale che si rimettano al centro le professionalità vere); e ancora, delle cosiddette influencer dell’arte, che hanno spettacolarizzato il settore derubricandolo ad intrattenimento.

E ancora: operazioni di comunicazione di altro tipo sono viceversa troppo elitarie, soprattutto quelle che riguardano il collezionismo, che viene raccontato spesso nella maniera sbagliata, accostandolo semplicisticamente ad ambienti e situazioni glamour che non fanno altro che depotenziare il messaggio, quando invece ci sarebbero tante storie autentiche, necessarie per comprendere il senso profondo del collezionare, da divulgare per poter parlare al cuore di un pubblico più ampio.

La riflessione di Stefano Piantini

Stefano Piantini, che è stato editore incaricato prima di Electa e poi di Skira, ne ha molto riflettuto: si tende a dimenticare - travolti dall’invasione della elettronica, delle immagini, della comunicazione superficiale e sbrigativa dei Social Network, e non solo - quanto abbiano contato e contino le riflessioni teoriche, da un lato, e non pochi volumi sommariamente definiti “illustrati”, dall’altro, rispetto alla conoscenza dell’arte contemporanea, alla sua analisi e alla nascita, nonché’ alla crescita creativa, degli stessi artisti.

Sarebbe opportuno ricordare che ciò è avvenuto e avviene soprattutto grazie ad un oggetto, un prodotto, che si dubita sarà mai obsoleto: il libro. Sia questo un saggio filosofico/teorico, o il catalogo di una di quelle grandi mostre che hanno fatto storia, o un “libro d’arte” come se ne pubblicavano un tempo, quando i costi tecnici proibitivi, la tecnologia ancora incerta della stampa del colore, portavano l’editore e gli autori a riflettere assai sui contenuti; non che oggi non si lavori in profondo sui contenuti, tuttavia, il livello tecnologico attuale ha semplificato non poco i processi. Scrive Umberto Eco: “Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati non puoi far di meglio”, sagge parole.

Nel corso del 2020 il settore del Libro d’Arte in Italia ha perduto l’85 per cento del fatturato, nel 2021 le proiezioni danno un fatturato in calo dell’80 per cento. Una catastrofe che rischia di decimare le, poche, case editrici del settore e annientare un know-how italiano che è una riconosciuta eccellenza internazionale. Certo, i problemi giganteschi che lo Stato italiano si trova a dover affrontare oggi (e non solo quello italiano): pandemia, inflazione, nuove povertà, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, decomposizione sociale, aumento esponenziale dei costi delle materie prime (energia compresa), scarsità/oligopolizzazione delle “terre rare” necessarie alla tecnologia, instabilità geopolitica, venti di guerra, fanno parere il piccolo e marginale problema della sopravvivenza di un settore - che è la nicchia di un settore, la editoria libraria, che è già una nicchia - come del tutto trascurabili, ma la disintegrazione della conoscenza e della cultura, seppur nel medio periodo (nel lungo periodo, scriveva Keynes, siamo tutti morti) sono certamente fatali, per qualsiasi Paese.

Nello specifico dell’arte contemporanea e della sua comunicazione, non si può fare a meno di notare come questa, oramai, passi unicamente attraverso il suo valore, o, per stare al classico Karl Marx, al suo plusvalore. Il museo X o il collezionista Y hanno acquistato, o venduto, l’opera dell’artista Z: molto bene, ma il nucleo della comunicazione, la notizia, non è il lavoro di Z ma il prezzo di vendita o di acquisto. Questo processo micidiale investe non solo la comunicazione ma, purtroppo, l’essenza stessa dell’arte.

Pagine dense e geniali, da Walter Benjamin a Jean Baudrillard, sono state scritte sul tema della cosiddetta “Sparizione dell’Arte”. La logica della produzione di plusvalore, la moltiplicazione infinita delle immagini, la perdita dell’Hic et Nunc dell’opera d’arte, sono contestuali ad un processo simmetrico e inversamente proporzionale, più aumentano i valori di mercato, meno si realizza la possibilità di giudizio estetico. È Charles Baudelaire, nel corpus dei suoi meravigliosi scritti sull’arte, a dare una lettura straordinaria di questo fenomeno: negare l’essenza della merce nel mondo della modernità, e dunque tentare di resuscitare l’arte con la “A” maiuscola, non ha senso, la soluzione sta nel potenziare quanto di straordinario c’è nella merce, la merce assume in tal modo uno statuto eroico.

Il paradosso della distruzione della merce attraverso il suo stesso valore è visibile nel mercato dell’arte contemporanea, la speculazione, talvolta assurda, sulle opere d’arte è una caricatura del mercato, una presa in giro del valore mercantile, del valore di scambio, la logica dell’equivalenza è demolita, il campo non è più quello del valore, ma quello dell’ombra del valore assoluto, l’estasi del valore (come commentare con più lucidità il prezzo stellare cui sarebbe stato venduto l’NFT di Beeple “Everydays: the First 5000 Days”? Un file Jpeg, visibile ovunque, scambiato per 69,3 milioni di dollari).

Ovviamente, le architetture filosofiche che inquadrano e analizzano un fenomeno in termini generali e strutturali, sono sempre passibili di eccezioni e, fortunatamente, le eccezioni sono numerose, ciò non toglie che le considerazioni acutissime dei tre citati giganti del pensiero, siano una rappresentazione del sistema dell’arte contemporanea piuttosto vicina alla verità (perlomeno a parere di chi scrive).

In ogni modo, al di là di ogni considerazione teorica, stiamo dalla parte di Oscar Wilde, non dispiace citare uno dei suoi leggendari aforismi: “ogni singola opera d'arte è l'adempimento di una profezia” vale a dire la predizione di un avvenimento futuro attraverso una ispirazione divina. Grazie Arte, grazie di esistere, in ogni e qualsiasi forma.

Il cinema

Il cinema, poi, altro tassello dolente da ripensare, per stimolare da parte dello Stato l’investimento in film che raccontino in modo adeguato, corretto, l’arte contemporanea.

Il cinema è un potentissimo, eccezionale mezzo per formare il gusto, per accendere passioni.

Viceversa, se al cinema si continua a raccontare l’arte contemporanea con operazioni tipo La migliore offerta o The Square, non si avvicina certo un pubblico più ampio, anzi, perché i più ci vedono solo una gabbia di ricchi, matti, fuori di testa; il primo esempio ovviamente è un caso più grave (per il nostro Paese) del secondo, essendo di un regista italiano, e fa il paio anche con la rappresentazione data del Macro nella fiction Vita da Carlo, in cui uno dei musei di arte contemporanea attualmente forse più interessanti di Roma, viene rappresentato un po’ in burletta, come un luogo in cui l’artista eccentrico di turno provoca un blackout e una inondazione a causa della sua bizzarra installazione.

Una riflessione che sarebbe importante da fare, tra gli operatori professionali del settore, proprio ora che il Parlamento sembra favorevole a incrementare il sostegno per il cinema, e non dovrebbe mancare molto alla promulgazione anche di un Codice dello Spettacolo. che ridisegnerà completamente il funzionamento del sostegno pubblico alla lirica, al teatro, alla musica, alla danza, al circo e a tutte le arti performative.

Il rapporto col denaro

Infine: venendo ai mal interpretati rapporti tra arte e denaro, chiedo: come siamo arrivati all’attuale società affetta da NFTsmo (secondo la definizione di  Kenny Schacther)? Non sarà sempre a causa di quel parlare oscuro cui si accennava poc’anzi, terreno fertile per speculazioni e sedicenti professionisti? Proviamo criticamente a domandarci, ad es. se gli NFT siano davvero così necessari, come ci vogliono far credere, per sfruttare le immagini delle opere d’arte anche dei musei.

Non si poteva già da anni fare come la Francia in cui storicamente, utilizzando in maniera virtuosa le potenzialità insite nella legge di diritto d’autore, esiste una agenzia istituzionale che si dedica proficuamente allo sfruttamento commerciale delle immagini delle opere custodite nei musei nazionali?

Cosa realmente cambia con gli NFT? Certe operazioni si potevano fare comunque senza cadere nel mondo ancora oscuro e poco comprensibile della blockchain, che è e resterà elitario, perché richiede competenze non banali di finanza, diritto e tech.

Come ci ricorda, infatti, Paolo Basilico, uno degli imprenditori italiani più brillanti nel campo della finanza, nel suo libro Uomini e soldi, occorre diffidare delle situazioni in cui si parla difficile, perché non si tratta quasi mai di complessità della materia, ma piuttosto di un modo di comunicare per confondere le acque, utilizzato dagli speculatori per i propri affari, e dannatamente favorevole ai conflitti di interesse.

Vi sarebbe ancora tanto da dire e ancora di più da fare: altro ben segnale sarebbe la tanto agognata equiparazione giuridico-economica dei docenti dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) ai docenti universitari, rafforzando così il loro fondamentale ruolo nella formazione del talento e nella costruzione del sistema identitario del Paese attraverso i linguaggi artistici.

L’auspicio è che questo sia solo un punto di inizio in grado di innescare un dibattito, partendo magari proprio da queste pagine: un dibattito capace di accogliere altre voci, proposte, riflessioni, per poi  — soprattutto — sfociare in azioni concrete a favore del settore.

                                                                                                            

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