Lentamente ma progressivamente Israele si trasforma in quello che impone ai palestinesi: un territorio isolato dal mondo, una gabbia. Si dice che l’isolamento non è abbastanza e che i paesi occidentali dovrebbero interrompere ogni collaborazione scientifico-tecnologica, soprattutto in materia di sicurezza e difesa.

C’è anche chi sostiene che sarebbe utile porre sanzioni a Tel Aviv, in particolare da parte dell’Unione europea. Ma già l’attuale situazione mette Israele nei tristi panni dell’aguzzino-carceriere: a furia di dover controllare gli altri, è in prigione pure lui. Questo non è garantire maggior sicurezza ma costringere gli israeliani ad un perenne stato di allerta: solo la pace – negoziata, totale e definitiva - offrirebbe in cambio calma e certezze.

La proposta di Donald Trump mira a questo? Parrebbe di sì, anche se i critici sono numerosi. Ma si sa: dopo tanti tentativi falliti nessuno sarà soddisfatto pienamente. In Israele c’è chi dice: «E il 7 ottobre? …pensavamo di stare in pace e invece siamo stati aggrediti…».

È vero: Hamas – da terrorista qual è - ha approfittato di un abbassamento della guardia per colpire brutalmente in maniera genocidaria. Tuttavia la responsabilità è condivisa dal momento che Benjamin Netanyahu e i suoi governi finanziavano Hamas da anni attraverso il Qatar. Si era pensato di trasformare terroristi in beneficiari di rendita. Pensare che sarebbero bastati i soldi è stato illusorio.

Alcuni mostrano le foto di Gaza anteguerra, sviluppata e prospera, chiedendo se tale “doratura” rappresentasse davvero una gabbia. Ma, com’è noto, nessuno sfarzo può sostituirsi alla negazione dell’identità, soprattutto quando non si concede la possibilità di avere accesso verso l’esterno. Né porti, né aeroporti sono mai stati permessi a Gaza anche quando c’era l’Anp a governarla, così come non sono stati concessi scali aerei in Cisgiordania. La cieca furia distruttiva contro le torri di Gaza nasce dalla rabbia per tale fallimento.

Anche per Hamas l’accordo sarebbe una scelta definitiva: uscire dal tunnel del nichilismo che non ha portato nulla ai palestinesi, solo morte. Farsi scudo di un popolo non è la miglior maniera di rappresentarlo… Ormai tutti i palestinesi (arabi inclusi) possono vedere il risultato della politica di Hamas: non si arriva a nessuno Stato, ma solo alla distruzione apocalittica, al suicidio assistito di un popolo che non vorrebbe morire, in nome di un’ideologia mista etno-religiosa.

Inutile invocare Oslo i ritardo: quando non si procede sulla via negoziale, la gabbia “mezzo-stato” rischia di diventare un bantustan per entrambi gli estremismi e già si sa come andrebbe a finire. Resasi conto di non poter evacuare milioni di palestinesi in stati limitrofi, l’estrema destra israeliana ora punta al sistema dei segregazionisti afrikaneer di una volta: creare dei mini “emirati” (dei bantustan appunto) da affidare a clan più o meno corrotti, divisi uno dall’altro, dove concentrare la popolazione palestinese che si troverebbe così circondata da coloni vecchi e nuovi, protetti dall’esercito. Poi si passerebbe all’annessione del resto della terra.

Come nel caso dei bantustan sudafricani, anche in questo vi sarà un clamoroso fallimento che aumenterà soltanto l’odio, chiudendo del tutto su Israele la gabbia. Ecco perché l’accordo di Trump non piace ai ministri estremisti israeliani: temono che se non ottengono (i loro) risultati presto, perderanno influenza (attualmente sovradimensionata) e voti.

Forse il dilemma di Netanyahu (ascoltare l’estrema destra o l’alleato Usa) si sta dipanando e si intravede la fine. A Washington non si vuole la caduta del premier e tutti desiderano la fine di questa “guerra contro i civili” portata avanti dai due estremismi.

Tuttavia il problema per l’Europa dovrebbe essere anche quello di dialogare con quell’uno/due milioni di israeliani anti-Netanyahu, non lasciandoli più isolati: sono loro la speranza di una ripresa democratica del paese e senza di loro non c’è pace futura possibile.

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