Nel lontano 1972 venne approvata in Italia la legge sull’obiezione di coscienza. Fu il risultato di anni di iniziative di militanti antimilitaristi di ispirazione sia laica che religiosa. Le azioni non-violente, dagli scioperi della fame all’incarcerazione per il rifiuto di indossare la divisa, erano in linea con l’insegnamento di alcuni illuminati come Andrea Caffi e Aldo Capitini.

La loro invocazione di un mondo che mettesse al bando la armi venne poi ripresa dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, quando nel suo discorso inaugurale, nel luglio 1978, lanciò un appello a «svuotare gli arsenali e riempire i granai». 

Di quella stagione è frutto un lavorìo di molte associazioni per vietare la produzione di mine anti-uomo e limitare la vendita di armi letali in giro per il mondo, la maggiore parte delle quali finisce nella mani di regimi dittatoriali.

La legge 185 del 1990 ha recepito quelle indicazioni con il divieto di vendere armi di offesa a paesi belligeranti, perché più armi vengono date a chi combatte più danni, più sofferenze e morti ci saranno. Sulla stessa linea si colloca la ratifica nel 2013 del trattato internazionale per il trasferimento di armi (Att).

Questi nobili intenti spesso si infrangono contro la realpolitik: la necessità di aiutare un nostro amico perché si opponga, con le armi, a un nostro nemico.

Il decreto legge votato l’altro giorno che autorizza, in parziale deroga alla legge e al trattato, l’invio di armamenti letali all’Ucraina riflette questo atteggiamento realista.

Indipendentemente dal sostegno al popolo ucraino, un tale cambio di passo rischia a di spianare la strada a giustificazioni  tipiche dello stato di eccezione. E invece, proprio in una situazione come questa va mantenuto un atteggiamento improntato alla critica e alla razionalità, dato che già si segnalano scivolamenti, il più significativo dei quali viene dalla proposta di braccia aperte dell’Ue all’Ucraina come fosse d’improvviso un paese dove vige(va) lo stato di diritto e dove oligarchie e mafie non spadroneggiavano, per non parlare delle milizie armate, anche naziste come il Pravyj sector (Settore destro).

L’aiuto agli ucraini passa piuttosto dall’indebolimento del regime putiniano. L’unico modo per fermare lo zar consiste nel favorire le componenti della classe dirigente russa disposte a un regime change.  Tutti i cambiamenti di regime che hanno avuto successo si realizzano quando l’élite al potere conosce una sconfitta - e Putin ha già perso la guerra -  e settori della stessa élite si alleano con esponenti dell’opposizione.

Per favorire questo processo il regime putiniano va sottoposto alle sanzioni dure e severe, anche a costo di danni alle nostre economie. In cambio, va garantito ai russi un reinserimento immediato nel consesso civile e compensazioni economiche. La solidarietà più efficace agli ucraini si paga con il portafoglio, non con le armi. 

© Riproduzione riservata