L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che condanna l’invasione russa, con 141 Paesi a favore, 35 astenuti, e solo 5 contrari: Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Siria ed Eritrea. L’isolamento internazionale della Russia è ormai certo.

Anche l’astensione che hanno assunto la Cina e l’India ha un peso relativo. Anzi, la loro posizione equidistante potrebbe farli assurgere a paesi che possono mediare per la cessazione delle ostilità.

Tuttavia è prematuro qualsiasi ottimismo: non va dimenticato che la Russia ha dichiarato l’allerta dei sistemi d’arma nucleari, sebbene con riferimento al “sistema difensivo”, una nozione che non rassicura affatto perché tutto dipende da cosa Putin percepisce come “minaccia”.

Anche la notizia della imminente ripresa dei negoziati va analizzata realisticamente, perché le forze russe avanzano progressivamente in Ucraina e i bombardamenti diventano sempre più frequenti e imponenti.

Da qui la necessità che vi siano iniziative per individuare le soluzioni giuridiche e diplomatiche più appropriate per la risoluzione pacifica della crisi, anche in una fase di escalation del conflitto.

È questo il ruolo che compete anche alla “comunità dei giuristi” se vuole definirsi tale, non tralasciando che il diritto internazionale delinea tutti i margini dell’esercizio della violenza bellica.

In particolare è il diritto internazionale umanitario a prevedere misure di protezione e tutela per la popolazione e gli obiettivi civili, i prigionieri, i feriti, i malati, e i rifugiati. Le norme giuridiche internazionali in sostanza pongono precisi limiti alla condotta delle ostilità, e stabiliscono pure principi generali di gradualità e proporzionalità della deterrenza e delle risposte difensive (N. Ronzitti, Il diritto internazionale dei conflitti armati, 2017).  Ma soprattutto i giuristi devono perseguire l’obiettivo di preservare e ripristinare lo stato di pace.

I negoziati in corso in Bielorussia

In questa ottica, è bene indicare i punti da cui risultano partiti i negoziati avviati in Bielorussia, prima a Gomel il 28 febbraio e poi proseguiti a Brest il 3 marzo. I colloqui sono stati guidati dal russo Vladimir Medinsk e dall’ucraino Mykhailo Podoliak.

A margine del primo negoziato c’era stata una telefonata tra Putin e Macron, in cui il leader russo avrebbe indicato che un accordo «è possibile solo tenendo conto incondizionatamente dei legittimi interessi della Russia nel campo della sicurezza», che comprendono «il riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea», nonché la «smilitarizzazione e denazificazione dello Stato ucraino e la garanzia sullo status neutrale».

La posizione di Kiev invece è stata determinata a imporre il “cessate il fuoco”, il ritiro delle truppe russe, e l’adesione dell’Ucraina all’Ue. Non si hanno conferme se nel negoziato l’Ucraina abbia anche parlato dell’adesione alla Nato, ma ovviamente su questo Mosca non sarebbe disposta a cedere di un passo.

Il secondo round dei negoziati di Brest si è concluso con la notizia data dal governo ucraino di un’intesa raggiunta sul cessate il fuoco temporaneo per permettere corridoi umanitari.  Il Guardian ha riportato indicazioni di un negoziatore ucraino, secondo cui «non sono stati raggiunti i risultati che l'Ucraina voleva».

Tuttavia durante lo svolgimento dei colloqui sono intervenute alcune notizie che hanno destato serie preoccupazioni per le prospettive di un concreto passo in avanti.

Il Presidente Volodymyr Zelensky in un videomessaggio ha chiesto l’introduzione di una “no-fly zone” in Ucraina e sollecitato un confronto diretto con il presidente russo, «l’unico modo per fermare la guerra».

Il Ministro degli esteri russo Lavrov in un incontro con la stampa estera ha indicato: «Mosca non può consentire minacce di attacco diretto alla Russia provenienti dall'Ucraina». E ha precisato: «Continueremo la nostra operazione, perché non possiamo permettere all’Ucraina di mantenere le infrastrutture che minacciano la sicurezza della Federazione Russa: la demilitarizzazione sarà portata a termine nel senso che le infrastrutture e le armi che ci minacciano saranno distrutte». È stata poi la volta delle dichiarazioni televisive rese dallo stesso Putin.

Il presidente russo ha ripreso la narrazione sull’identità russa e sull’aggressione subita dalle popolazioni russe del Donbass da parte del governo di Kiev. «Siamo in guerra con i neonazisti», ha dichiarato, aggiungendo che mentre «i nostri militari forniscono corridoi sicuri per i civili (…) i neonazisti ucraini lo impediscono e stanno trattando i civili come scudi umani». 

Ha quindi ribadito: «Non ritornerò mai indietro rispetto alla mia dichiarazione che Russia e Ucraina sono un unico popolo», ed ha precisato: «L’operazione speciale in Ucraina prosegue in accordo con i nostri programmi».

È arduo interpretare la reale portata di tali dichiarazioni. Da un lato potrebbero essere lette come una condizione di irremovibilità delle posizioni della Russia, che peraltro anche sul campo appare decisa ad estendere l’avanzata in Ucraina, come dimostrerebbero le notizie delle temute incursioni navali su Odessa.

Ma potrebbe essere ancora una postura della grande potenza che vuole dimostrare fin in fondo di non cedere nulla, soprattutto sul fronte interno. Non a caso, in vari passaggi dell’ultimo discorso Putin si è soffermato sul valore delle truppe russe, ed ha annunciato la concessione di onorificenze ai militari che si sono distinti nei combattimenti, nonché di ulteriori incentivi economici per i combattenti e i loro familiari.

Un’indicazione che tradisce probabilmente una preoccupazione per la motivazione delle forze impiegate sul campo e per il consenso nazionale, già in bilico per i primi effetti delle sanzioni.

Un ruolo ancora possibile della comunità internazionale

In questo scenario è difficile ipotizzare l’evoluzione delle negoziazioni in corso. Il rischio è che la trattativa per la Russia non sia che un diversivo, l’ultimo pretesto con cui giustificare l’aggressione totale sull’Ucraina. Un riscontro sarà dato a questo punto dalle notizie che verranno sulle effettive modalità di attuazione del cessate il fuoco temporaneo e dei corridoi umanitari.

Ciò che rammarica, in ogni caso, è che al negoziato non sia prevista una mediazione neutrale e indipendente, che certamente non può individuarsi nella Bielorussia di Lukashenko.

Riferimenti istituzionali in proposito potevano essere certamente le Nazioni Unite, oppure alcuni Paesi che pure si sono astenuti per la risoluzione Onu di condanna alla Russia, come la Cina, o anche la Svizzera, storico paese “neutrale”, se non anche figure autorevoli dell’Unione Europea che hanno un trascorso di attenzione alla Russia, come la ex cancelliera Angela Merkel, per fare un nome.

Ma si poteva pensare anche ad un “collegio” ristretto dei giuristi della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu, che avrebbero potuto esprimere pareri in specie sulla legittimità delle rispettive pretese.

A solo titolo di esempio, i giuristi avrebbero potuto richiamare i principi di diritto internazionale che prevedono uno specifico processo per poter configurare un diverso status della Crimea, qualora vi siano i presupposti e, in ogni caso, senza atti impositivi unilaterali.

In sostanza, sarebbe auspicabile che i negoziatori di Mosca e Kiev non siano lasciati soli nelle trattative, e che ad essi giunga il sostegno delle Nazioni Unite e anche dell’Unione Europea, soggetti che possono garantire terzietà e neutralità tra i due attori principali, di cui uno ha peraltro la netta preponderanza nella forza bellica.

É bene rivolgere dunque una richiesta assertiva a Mosca, in cui si evidenzi che è l’umanità intera ad essere stata direttamente colpita: da un lato, sarà chiamata anche ad affrontare, non senza sacrifici, il dovere dell’accoglienza per almeno quattro milioni profughi annunciati in fuga dall’Ucraina; dall’altro, sta vivendo in una condizione di paura e di crisi generale, più seria di quella provata persino con la pandemia. Una situazione drammatica che è condivisa, forse anche in forme più gravi, anche dalla popolazione russa.

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