Come ho recentemente scritto sul primo numero della nuova rivista Comprendere, diretta da Giulio Sapellli (intellettuale non convenzionale i cui interessi spaziano dalla storia economica, alla filosofia, alla geopolitica), a un occhio attento gli storici Accordi di Abramo promossi dall’amministrazione Trump, certamente sospinti dall’intenzione di creare un asse anti-Iran che comprendesse il mondo arabo e Israele, riflettono tendenze di fondo che, man mano che aumentava la distanza dal «trauma» del 1948, hanno spinto molti paesi arabi a convergere verso lo stato ebraico, con cui condividono interessi che vanno dalla sicurezza (la repressione del jihadismo) al settore energetico.

Ancor più fondamentale dopo gli sconquassi dovuti al conflitto russo-ucraino. Se si osservano le dinamiche geopolitiche a partire dalla fine della Guerra Fredda, in cui è emerso l’altro fattore decisivo di mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti d’America, unico (allora) attore globale rimasto, è facile notare come i paesi che hanno tratto maggior vantaggio sono stati quelli capaci di far prevalere un principio di realpolitik rispetto al proverbiale antisionismo sempre buono per accaparrarsi il consenso di masse cresciute a pane e odio verso lo stato ebraico, quando non verso l’ebreo stesso, perseguitato e sterminato nel mondo occidentale, ma ghettizzato, umiliato e costretto a secolare subordinazione nel mondo musulmano (poi ci si chiede perché questi ebrei abbiano voluto una nazione).

Chi vince e chi perde

Fra i paesi che si sono certamente avvantaggiati del nuovo quadro internazionale spicca il Marocco, firmatario degli stessi Accordi di Abramo per mano del proprio ministro degli Esteri Nasser Bourita. Firma che ha portato alla cooperazione con Israele in numerosi campi strategici: energie rinnovabili, agroalimentare, aeronautico, farmaceutico, informatico. Solo per citare i principali.

Nello stesso gruppo troviamo, senz’altro, l’Egitto, già firmatario della pace con Israele nel 1979. Collaborazioni con lo stato ebraico: settore sicurezza, turismo e energia. In quest’ultimo campo si mira alla creazione di un hub mediterraneo che possa fornire gas all’Europa orfana degli idrocarburi russi.

Chi, invece, per motivi di politica interna ha prediletto l’antisionismo, che, quando la propaganda non è in inglese, significa revanscismo arabo e nazionalismo travestito da panarabismo ha guadagnato solo isolamento internazionale rispetto a dossier fondamentali. Caso scuola: l’Algeria rimasta isolata nella querelle riguardo il Sahara occidentale, dove Emirati Arabi Uniti, già tra i primi firmatari degli accordi di Abramo, e Stati Uniti si sono diretti sul versante marocchino.

Storia a parte la Tunisia, che non ha mai rotto l’ambiguità nei confronti dello stato ebraico, alternando aperture e chiusure, a seconda delle esigenze interne di propaganda.

Il caso libico

Alla lista degli «svantaggiati» sembrerebbe appartenere anche la Libia, stando alle cronache di queste ore prontamente riportate da Domani, che parlano di un incontro segreto mediato da Antonio Tajani fra il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen e la sua omologa libica Najla al Mangoush, suscitando la reazione delle piazze e costringendo il premier Abdelamid Dbeibah a «licenziarla». Dopodiché sono arrivate anche le indagini a suo carico. La motivazione di questi sviluppi è tutta una programma: «Una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la normalizzazione con l’entità sionista». Un classico della propaganda araba anti-israliana.

Dall’altra parte della barricata, Netanyahu si è affrettato a dichiarare che da oggi in poi dovrà approvare personalmente ogni incontro segreto dei suoi ministri con omologhi stranieri. Questo a causa dell’effetto procurato in patria dalle proteste nelle strade libiche in cui sono state anche bruciate bandiere israeliane.

Non il massimo per un governo che aveva promesso distensione e sicurezza e si trova ad affrontare isolamento internazionale e una serie di attentati come non si vedeva da anni. Sono il primo a polemizzare contro l’eccesso della moda geopolitica, ma quando la politica estera abdica al principio di realtà per cedere il passo alle più retrive ideologizzazioni questo è il risultato. Realismo politico cercasi.

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