Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid si è recato a Rabat per la prima visita ufficiale dagli accordi per la normalizzazione delle relazioni fra lo stato ebraico e il Marocco siglati lo scorso anno. Il viaggio, che prevede un incontro con la controparte marocchina Nasser Bourita, un passaggio al mausoleo di Mohammed V e alla sinagoga di Casablanca, nonché l’apertura di una rappresentanza israeliana nella capitale, si chiuderà stasera, proprio alla vigilia del primo anniversario dell’annuncio dell’accordo fra Emirati Uniti e Israele il 13 agosto 2020, a cui seguirono quelli con Bahrein, Sudan e, per l’appunto, il Marocco.

Ma l’accoglienza non è delle più calorose. Secondo il programma ufficiale della visita Lapid non incontrerà il re Mohammed VI, e nemmeno il primo ministro Saadeddine Othmani, che appartiene al partito islamista Giustizia e sviluppo. Impotente di fronte alle decisioni di politica estera prese dalla casa reale, la formazione di governo si è dimostrata recalcitrante rispetto al disgelo con Israele, ricevendo invece il capo politico del movimento palestinese Hamas Ismail Haniyeh meno di due mesi fa. E non può permettersi passi falsi in vista delle elezioni dell’8 settembre prossimo.

Il tweet di Trump

Raggiunto al telefono, l’ultimo ministro degli Esteri israeliano ad aver visitato il Marocco nel 2003, Silvan Shalom, dice che Rabat sta «rallentando il processo (di riavvicinamento a Israele, ndr)». «Donald Trump non è più al potere negli Stati Uniti, ed è stata la sua insistenza a spingere il Marocco fino a questo punto», spiega mentre ordina un «pesce alla marocchina», specialità ebraico-sefardita, in un ristorante di Tel Aviv. La svolta per la normalizzazione fra Marocco e Israele è arrivata infatti con un tweet di Trump (uno degli ultimi) che nel dicembre 2020 annunciava il riconoscimento americano del Sahara occidentale, ricco di risorse naturali, come territorio marocchino, proprio come contropartita all’accordo con Gerusalemme.

Ecco allora che mentre la nuova amministrazione di Joe Biden non scioglie il riserbo quanto alla sua posizione sul Sahara occidentale e alla battaglia irredentista degli autonomisti nativi del Polisario, il Marocco, che a fine luglio ha autorizzato i voli diretti da Tel Aviv, non ha fretta di compiere passi ulteriori. Commenta Shalom: «Nel 2003 volai con un jet privato con mia moglie e il loro ministro degli Esteri da Rabat a Tetouan, sull’oceano, dove incontrai il re nel suo palazzo estivo, e poi lo rividi in segreto a New York. Ma anche se non prevede vertici di questo tipo, la visita di Lapid rimane storica, e ogni passo intrapreso alla luce del sole da un paese arabo verso la formalizzazione dei rapporti con Israele è di grande importanza».

A gettare un’ombra sulla visita e sul processo degli accordi d’Abramo nel suo complesso c’è stata, il mese scorso, un’inchiesta internazionale sulle attività della società di cyber-sicurezza privata israeliana Nso. Pegasus, il sistema sviluppato da Nso, è in grado di infiltrare e pilotare da remoto smartphone con grande facilità. Da qualche anno emergevano informazioni su come la tecnologia fosse stata ceduta a diversi regimi autocratici, che l’hanno utilizzata per intercettare giornalisti e oppositori politici. L’inchiesta “Project Pegasus”, organizzata dalla non-profit parigina Forbidden stories e da Amnesty international, ha rivelato nel dettaglio l’entità degli abusi. Fra gli altri, i servizi marocchini avrebbero utilizzato la tecnologia per perseguitare attori della società civile e spiare ufficiali francesi, fra cui forse lo stesso presidente Emmanuel Macron.

Lo spyware

«Project Pegasus ha rivelato il modo in cui la vendita di armi cyber come lo spyware di Nso faccia parte della diplomazia israeliana, soprattutto nel mondo arabo», dice Omer BenJacob, giornalista tech israeliano che ha seguito l’inchiesta per conto del quotidiano Haaretz. «Paesi come il Marocco, che è cliente di Nso, hanno accesso a tecnologie che non saprebbero sviluppare, e Israele le trasforma in una moneta diplomatica. È un incentivo ad avvicinarsi a Israele anche se non fa nessuna concessione sui palestinesi, una condizione che storicamente era necessaria. Il caso Nso ha imbarazzato il nuovo governo israeliano (dopo l’era di Benjamin Netanyahu, ndr) facendo apparire Israele come alleato di forze illiberali», dice.

Continua ancora BenJacob: «Col senno di poi è chiaro che la vendita di queste tecnologie ha facilitato gli accordi di Abramo con paesi come gli Emirati, che hanno normalizzato i rapporti con Israele, e l’Arabia Saudita, che non lo ha fatto ma ha dato il proprio benestare affinché paesi alleati si muovessero in questa direzione. Con la visita di Rabat Lapid ha davanti a sé una sfida difficile: deve far vedere che i rapporti con il Marocco vanno oltre Nso e le armi, e allo stesso tempo dimostrare alla Francia che prende sul serio gli abusi della tecnologia. A Parigi sanno bene che la cessione di spyware di questo tipo non sarebbe potuta avvenire senza l’approvazione di dirigenti politici ed establishment militare israeliano, da qui il viaggio del ministro della Difesa Benny Gantz in Francia dove, a fine luglio, ha cercato di limitare i danni».

Il rapporto con gli Emirati

A oggi le rivelazioni su Nso non sembrano in ogni caso aver creato troppi imbarazzi nelle cancellerie medio-orientali: le reazioni, a parte quelle di Parigi, scarseggiano. E a un anno dagli accordi di Abramo sono proprio i rapporti bilaterali fra Israele e gli Emirati a vantare i progressi più significativi. Secondo dati recentissimi dell’ufficio centrale israeliano di statistica, il valore degli affari fra i due paesi avrebbe raggiunto 570 milioni di dollari dalla normalizzazione delle relazioni. Israele avrebbe esportato per un valore di 197 milioni di dollari verso gli Emirati e importato 372 milioni in merci e servizi. Elham Fakhro, analista originaria del Bahrein che segue i paesi del Golfo per conto del think-tank International crisis group, dice che l’ammontare sostanzioso di interscambi economici e commerciali tra i due paesi spiega le origini del disgelo. «Inizialmente, l’accordo fu presentato come un modo per fermare l’annessione israeliana dei territori della Cisgiordania, che sembrava imminente la scorsa estate. Ma la politica israeliana nei confronti dei palestinesi non è cambiata ed è chiaro che fu la prospettiva degli affari commerciali a spingere Abu Dhabi in questa direzione», dice. «Altri elementi sono stati il via libera americano per la vendita degli aerei F35, l’accesso a tech e cyber israeliano, e ovviamente il riposizionamento strategico contro il nemico comune iraniano». Molto minori sono stati gli sviluppi nei rapporti bilaterali fra Israele e il Bahrain, il cui mercato è molto più limitato, e il Sudan, che una volta ottenuta la rimozione dalla lista statunitense dei paesi che favorivano il terrorismo non ha manifestato interesse a dare seguito alla svolta con Israele. A metà strada si colloca il Marocco, con cui Lapid spera di rilanciare il progresso negli interscambi durante il viaggio di questi giorni.

Complice l’esistenza di una antica tradizione ebraica locale, e di una forte emigrazione ebraica dal Marocco a Israele negli anni ’50 e ’60, il ministro, malgrado le difficoltà, lavora su solide fondamenta. Yigal Palmor, ex direttore del dipartimento Maghreb nel ministero degli Esteri israeliano, spiega che il re «ha sempre trattato i suoi sudditi marocchini in Israele con grande riguardo e non ha mai tenuto posizioni radicali contro lo stato ebraico». Ricordando una lunga storia di rapporti informali fra i due paesi, conclude: «I marocchini ora ci vanno piano, ma è solo questione di tempo».

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