Il bell’articolo di Gabriele Segre ha il merito di cogliere una delle conseguenze a lungo termine del ritorno imperioso della guerra a egemonizzare i nostri discorsi. Questa conseguenza sta nel fatto che il ritorno della guerra accentua la crisi della politica, invece che risolverla. La logica della guerra sembra oggi prendere precisamente il posto della politica. Ne è diventata un’opzione sgradevole ma necessaria, non un suo caso limite. Si deve riconoscere purtroppo che la guerra è diventata il discorso egemonico della politica. E sembra esserlo innanzitutto per coloro che si presentano come gli strenui difensori dell’occidente.

Ma forse il punto di cui dovremmo occuparci sta proprio qui, nella falsa coscienza dell’occidente di fronte alla guerra che egemonizza la politica. In fondo, tra le discontinuità fondamentali che hanno segnato la frattura dell’età moderna – l’epoca dell’occidente che vorremmo difendere adesso armandoci e partendo ogni volta – di sicuro c’era anche la presunzione di sradicare la mutua compenetrazione di guerra e politica in nome di una subordinazione della prima alla seconda. Proprio quello che viene oggi dimenticato: l’occidente non sembra occupato più nel politicizzare quanto più possibile la guerra, ma piuttosto nel bellicizzare la politica, se così posso dire.

Anche quando facciamo impropriamente riferimento alla categoria del realismo, dimentichiamo che essa propugnava il primato della politica, non della guerra. Si può leggere in questo senso anche il fascino dell’ultimo secolo nei confronti della teologia politica. Che, contrariamente a ciò che una lettura superficiale vorrebbe indicare, ha senso nella misura in cui politica e guerra tengono a bada la propria reciproca attrazione.
Se la guerra – con tutto il suo portato tragico e disumano – rappresenta il trionfo apocalittico e senza freni del male, sta alla politica immaginare quelle forze che possono contenere l’apocalittica, esercitare il “potere che frena”.

Forza e violenza

Certo, per la teologia politica questo esercizio è drammaticamente colluso con la forza necessaria. Ma questa forza necessaria – anche nel peggiore dei casi e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale – non è ciò che serve a evitare la violenza della guerra, molto più che essere la guerra stessa?
Se c’è qualcosa che la modernità ha provato a declinare, nella tragicità della sua storia, è precisamente l’idea che tra forza e violenza ci debba essere tensione, ma non identità (lo ricordava molto bene Tronti, uno dei più acuti studiosi del tragitto drammatico della teologia politica moderna). Se c’è necessità della forza – e i realisti politici non possono che riconoscerlo – proprio perché la politica consiste nel tentativo di rimandare il tempo in cui tutto è perduto e resta solo la guerra.

Così, ha ben ragione Segre ad ammonirci circa l’interpretazione della celebre tesi di von Clausewitz. Riconoscere che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi» vuol dire in fondo dichiarare immediatamente che ciò che conta è la politica, non la guerra. Quest’ultima non può darsi assolutamente, ma soltanto come una variazione strumentale della politica, sottoposta alla sua opera di “civilizzazione”. Se la guerra è uno strumento per “continuare” la politica, vorrà dire che la politica dovrebbe essere ben più che l’uso dello strumento estremo della guerra.

Ecco, quel che mi colpisce di questa fase è che coloro che rivendicano la presunta superiorità morale e politica dell’occidente stanno rinunciando a uno dei suoi guadagni non negoziabili, riducendo l’immaginazione politica in miseria. Così facendo, l’occidente si mette in un evidente stato di contraddizione: il modo che sceglie per difendere se stesso è il contrario di ciò che si vorrebbe difendere.

L’unica parola

Sono consapevole che molti mi direbbero che tutte queste guerre sono innegabilmente “continuazione della politica con altri mezzi” e che dunque non c’è nessuna contraddizione nelle posizioni di coloro che pretendono di rappresentare l’occidente. Ma la guerra non pare ormai l’ultima parola in bocca ai politici, ma l’unica. Prima e dopo la guerra, non c’è più nulla. Allo stato attuale, la guerra non è uno strumento della politica, la guerra è la politica. Svelando così non la potenza ma l’impotenza della politica, la sua crisi. La guerra non è affatto la continuazione della politica, è ciò che ne prende il posto. Nulla di più lontano dall’eredità del moderno.

Se anche fosse vero che siamo meno brutali di coloro che ci scandalizzano, ciò non basterebbe. Perché l’occidente moderno non si è contraddistinto per coltivare col giusto distacco le virtù della guerra, ma per provare (mal riuscendoci) a ripudiarle definendole vizi, immaginando al contrario che ciò su cui valesse la pena costruire un nuovo ordine internazionale fossero le virtù opposte alla guerra.

Lo scriveva bene Simone Weil nel 1939: «Non dobbiamo credere che, poiché siamo meno brutali, meno violenti, meno disumani di coloro che abbiamo di fronte, vinceremo. La brutalità, la violenza, la disumanità hanno un prestigio immenso, che i libri di scuola nascondono ai bambini, che gli adulti non si confessano, ma che tutti subiscono. Le virtù opposte, per avere un prestigio equivalente, devono essere esercitate in maniera costante ed effettiva. Chiunque sia solo incapace di essere tanto brutale, violento, disumano quanto un altro, senza però praticare le virtù opposte, è inferiore a quest’altro sia nella forza che nel prestigio; e non resisterà davanti a lui». Temo abbia ancora ragione. Se rinunciamo a esercitare in maniera costante e effettiva le virtù opposte a ciò che diciamo di voler combattere, tutto sarà già perduto.

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