Alcune parole entrano nella nostra vita senza bussare. S’impongono nel dibattito pubblico obbligandoci ad avere un’opinione ancor prima di aver compreso di cosa si stia parlando. Questo è il caso dell’espressione call out.

Questa “cosa” ha cominciato a circolare intorno alle vicende giudiziarie di alcune persone con molto seguito sui social, profili popolari per aver professionalizzato il loro attivismo sulle piattaforme.

Sui fatti non occorre tornare perché sono dilagati in ogni spazio, le prove giudiziarie sui giornali, le chat private sui social, e le opinioni di chiunque abbia voluto trarre una morale o impartire una punizione sono circolate fuori dai confini della rete. Ciò che resta ben saldo è il fronte compatto e organizzato di odiatori di donne e detrattori del femminismo che intonano in caps lock il solito coro di inulti sessisti.

Cosa è

Ma prendiamo la cultura popolare per quello che è, cioè l’arena dove si scontrano le posizioni del potere e le possibili resistenze, e proviamo a interrogarci su queste pratiche femministe che irrompono nel dibattito pubblico. Insomma, cos’è questo call out? È difficile rendere con una sola parola un verbo che significa comunicare, chiarire, convocare, sgridare.

Il problema delle traduzioni è che le parole non circolano solo tra lingue, ma soprattutto tra comunità che ne arricchiscono ulteriormente il senso. Così, questo termine si è diffuso col significato di fare il nome di qualcuno per denunciarlo pubblicamente.

Andrienne Maree Brown ne ricostruisce le origini nella strategia di persone marginalizzate di alzare la voce contro il potere. Per Brown, una persona trans non binaria e nera, si tratta di una pratica collettiva rivolta contro aziende e istituzioni per incastrarle alla responsabilità di aver causato un danno. Quindi, sempre un’azione collettiva a supporto di chi non avrebbe avuto l’adeguato rapporto di forza per far fronte all’oppressione.

La potenza di un gesto

Appena qualche anno fa abbiamo avuto una stagione importante di denunce pubbliche, i MeToo sono stati occasione per numerose donne (e persone in condizione di vulnerabilità dentro le relazioni di potere e tra i generi) di prendere parola rispetto a dei vissuti traumatici e fare dei nomi.

Sebbene ognuna parlasse in prima persona, si poteva riconoscere un desiderio collettivo di cercare qualche forma di riparazione, sapendo di non poterne trovare nella giustizia istituzionale. La potenza di quel gesto stava proprio nel collettivo, non solo perché sono state in molte a pronunciarlo, ma perché ci siamo riconosciute, insieme ad altre, nella speranza di produrre una trasformazione.

Che sia il recupero dal silenzio traumatico nel MeToo, o l’ingiunzione alla responsabilità del call out, la presa di parola ha il merito di sottrarre dall’eccezionalità il danno subito, e leggerlo all’interno della dinamica strutturale della violenza. Non solo far uscire dall’isolamento la vittima, ma restituirle l’agency, la capacità di agire, in un contesto che deve cambiare grazie a una presa in carico politica e collettiva.

L’abuso

Oggi, nelle comunità politiche, e anche in quella transfemminista italiana, si sta riflettendo sull’abuso del call out. (Non abbiamo fatto in tempo a imparare la parola che già è abusata). Assistiamo al diffondersi dell’individualizzazione di questa presa di parola, che frustra chi denuncia ed è pericolosa per chi subisce un’accusa senza diritto d’appello.

Il limite dell’utilizzo di questo strumento fuori dal senso di responsabilità di una comunità è che né chi ha subito riceve riconoscimento, né chi ha commesso è incastrato ad alcuna responsabilità. Nel migliore dei casi, si tratta di una vendetta. E non voglio condannare a prescindere la vendetta femminista, ma mi chiedo, è così che vogliamo esercitarla?

Per noi che ci riconosciamo in una lunga storia di dissidenza sessuale, il marchio della vergogna è un’arma che rifiutiamo di fare nostra. Esiste un dubbio legittimo rispetto all’abuso del call out, e la minaccia sempre incombente della distruzione reputazionale, che incombe soprattutto sulle persone che fanno della reputazione e la visibilità il loro mestiere. Ma quello che succede più spesso è che questo mezzo venga utilizzato contro persone e collettivi per zittirli per un periodo o annientarli. Si tratta, in effetti, di un retaggio machista che dobbiamo combattere anche nella politica femminista.

Una forza popolare

Forse sarebbe il caso – senza alcuno snobismo o autorità per dare la coccarda di vere femministe – di annotare al margine di queste riflessioni, che l’irruzione del call out tra le notizie di cronaca (o di costume?) non è per riportare questo dibattito, ma perché è utilizzato da delle persone che producono valore dalle nostre parole.

Attiviste che però non devono prendersi la responsabilità di una comunità da tenere insieme in tempi duri come questi. Forse sarebbe il caso di rimettere in ordine i termini del discorso e ricordare che la grande visibilità del femminismo è stata prodotta dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza per i cortei femministi del 25 novembre, gli scioperi dell’8 marzo e le assemblee invisibilizzate dai media. È questo che fa del femminismo una forza popolare, cioè in grado di cambiare la cultura sessista e patriarcale della nostra società.


 *Transfemminista, ricercatrice, insegna Teorie queer e studi cultural

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