«Non siamo in piazza per far vedere quante siamo. Siamo in piazza per guardarci in faccia e parlare della nostra vita, come vogliamo noi. Siamo qui per sorellanza, tra tutti i generi». A parlare è Federica Rosin, dell’Osservatorio di Non una di meno, con il volto segnato dalla commozione «per l’importanza della giornata che stiamo vivendo», dice da piazza della Repubblica, a Roma, poco prima che il corteo nazionale organizzato, come ogni anno, per il 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dal movimento femminista e transfemminista Non una di meno, inizia a muovere i primi passi verso Porta San Giovanni, tappa finale della manifestazione.

Per Rosin, per decostruire il patriarcato – e quindi contrastare la violenza di genere – ci sono due strade da percorrere: da un lato è necessario che la politica si impegni a offrire gli strumenti essenziali a chi subisce violenza per uscirne, finanziando i centri antiviolenza, la sanità e il reddito di libertà. «Dall’altro è fondamentale promuovere una trasformazione culturale. Che non è utile solo a noi ma a tutti, anche ai maschi. Anche la guerra è una manifestazione del potere machista che schiaccia le vite», conclude mentre arrivano alcune compagne dell’Osservatorio per abbracciarla.

Dalla guerra al patriarcato

«Sabotiamo guerra e patriarcato», è, infatti, lo slogan in cui si sono riconosciute le 70mila persone che hanno colorato di viola le strade del centro della Capitale, sabato 22 novembre, dalle 14.30 fino a quando il buio non si è fatto pesto e il freddo dell’inverno pungente.

«Perché anche la guerra è una conseguenza del patriarcato», spiega a Domani Valeria Giuliano, dell’organizzazione Donne de Borgata, convinta che per fermare la violenza patriarcale sia necessario che le lotte si connettano: «Il contrasto alla violenza di genere e al genocidio a Gaza vanno insieme perché pensiamo che entrambi siano espressioni della stessa violenza, quella delle democrazie occidentali che, come non fanno nulla per fermare Israele, non fanno niente per incidere concretamente sulle condizioni che viviamo noi donne, non solo noi di periferia, ma tutte, quotidianamente, a lavoro, per strada, a scuola».

ANSA
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Per Giuliano anche la manovra economica 2026 del governo Meloni è espressione della stessa cultura «di guerra e discriminatoria contro cui siamo scese in piazza».

A credere che le politiche del governo Meloni non siano affatto a favore dell’emancipazione femminile sono tanti tra i manifestanti che formano il lungo corteo, che tra musica e cori procede festoso. Tra questi anche Maya Issa, del movimento dei Giovani palestinesi, che dal camion che ha guidato la marea, ha chiesto le dimissioni della premier. Issa ha dedicato il suo intervento alle donne palestinesi, sia per ricordare le oltre 20 mila uccise dagli attacchi israeliani a Gaza e quelle che continuano a morire, sia la forza della resistenza di chi continua a farsi spazio nonostante la violenza «perché nessuna liberazione è possibile da sola, ma solo con la lotta intersezionale. La Palestina ce lo insegna», ha spiegato dalla testa del corteo, una safe zone dalla quale gli uomini cisgender sono stati allontanati, per lasciare il ruolo di protagonista a chi di solito non lo ha, alle altre soggettività.

Un cambio culturale

«Siamo una manifestazione grande, tranfemminista, che chiede azione sul livello culturale del nostro paese. Non basta l’introduzione di nuovi reati come quello di femminicidio per fermare la violenza, serve la decostruzione dell’impianto patriarcale della cultura in cui siamo sommerse», dice Elisabetta Piccolotti, di Alleanza Verdi e Sinistra per rispondere alle recenti dichiarazioni dei ministri della Giustizia Carlo Nordio e della Famiglia Eugenia Roccella, secondo cui, rispettivamente, il predominio dell’uomo sulla donna sarebbe scritto nel dna e l’educazione sessuo-affettiva non servirebbe per contrastare la violenza del genere.

«Il patriarcato esiste eccome, siamo immersi in una cultura che demolisce il ruolo delle donne e la loro libertà. Per questo respingiamo il ddl Valditara sul consenso informato e per questo in piazza ci sono anche io», conclude Piccolotti poco prima che la folla di persone di ogni età inizia a agitare le chiavi in aria con l’obiettivo di fare rumore, il primo dei flash mob che hanno scandito il cammino del corteo fino a San Giovanni.

«Se la situazione in Italia è questa, 78 femminicidi dall’inizio dell’anno, violenza nella maggior parte dei casi perpetrata da partner o ex come testimonia l’ultima indagine Istat, è proprio perché l’educazione sesso-affettiva manca nelle scuole, gli effetti sono deleteri e si vedono. Non serve a niente inasprire le pene se manca l’educazione», aggiungono alcune studentesse che fanno gruppo dietro lo striscione “scuole e atenei contro la violenza di genere”. Beatrice, Nicole, Lavinia, Giordana, frequentano tutte scuole diverse ma a unirle c’è il vissuto comune «la violenza di genere è un problema che abbiamo tutte, ogni giorno. Siamo in piazza perché siamo stanche di avere paura».

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