L’8 dicembre, mercoledì, in Germania inizierà ufficialmente l’era di Olaf Scholz, nuovo cancelliere socialdemocratico a capo di un’eterogenea coalizione “semaforo” composta anche da Verdi e Liberali. I due mesi passati dalle elezioni del 26 settembre sono serviti a negoziare un dettagliatissimo programma di coalizione (177 pagine) tra partiti con piattaforme politiche molto diverse e, su alcuni temi, opposte.

L’accordo è importante tanto per quello che dice che per ciò che non dice. Intanto, si può osservare che nel programma l’Europa è onnipresente, dalle politiche ambientali alla governance europea, dalla politica estera alla digitalizzazione e ai temi sociali; questo segnala che nei prossimi anni la Germania non intende rinunciare al proprio ruolo di perno della politica europea e di capomastro dei cantieri di riforma.ù

Transizione e flessibilità

Per comprendere se questo ruolo sarà propulsivo o se la Germania continuerà ad essere una forza di conservazione come durante la crisi del debito sovrano, occorre entrare nei dettagli dell’accordo in tema di transizione ecologica e riforme della governance economica.

Per quel che riguarda la prima, i Verdi sono riusciti a spuntare un’accelerazione dell’uscita dal carbone, anticipata al 2030 (dal 2038) quando l’80 per cento dell’offerta di elettricità dovrà essere assicurata dalle energie rinnovabili. Questo richiederà investimenti pubblici colossali che pongono il problema delle risorse e della politica di bilancio, in Germania come in Europa.

Ricordiamo che il Patto di stabilità è sospeso fino a tutto il 2022 e che, mentre la Commissione ha lanciato un processo di consultazione sulla sua riforma, impazza il dibattito tra chi spinge per un ritorno rapido al rigore e chi invece chiede regole più flessibili.

Olaf Scholz il 4 dicembre, durante il congresso dell'Spd che lo confermerà come cancelliere designato (Michael Kappeler/dpa via AP)

L’importanza dei non detti

Era proprio sulla riforma delle regole e la creazione di una capacità di bilancio europea che le distanze tra i partiti della coalizione erano più marcate. A Verdi e Socialdemocratici, che insistono sul bisogno di politiche sociali, di regole che consentano di investire e sull’importanza di progetti transnazionali, si opponevano i veti dei Liberali, strenuamente opposti a modifiche dei trattati che definissero regole più flessibili e che insistevano sul carattere temporaneo e limitato del programma di investimento del Next generation Eu (Ngeu).

Tra quello che l’accordo dice e, soprattutto, quello che non dice, sembra che ad averla vinta siano stati i primi, con i Liberali che non sono riusciti ad imporre le proprie linee rosse. In primo luogo, c’è un impegno a favorire programmi di investimento propriamente europei, che mancano dal Ngeu (ricordiamo che questo è un programma di indebitamento comune volto a finanziare investimenti e riforme che rimangono effettuati dai paesi membri tramite i Pnrr, i piani nazionali di ripresa e resilienza).

Poi, proprio riguardo a Ngeue al Recovery, a parte l’ovvia constatazione che si tratta di un programma temporaneo e limitato, non c’è alcun impegno né in un senso (un’evoluzione verso una struttura permanente) né nell’altro (ritorno a debito esclusivamente nazionale).

Un tenersi le mani libere che si ritrova anche nel compromesso sul patto di stabilità: una formulazione del testo pesata con il bilancino che, se da un lato ribadisce il bisogno di regole che “siano più efficaci” e garantiscano allo stesso tempo crescita e sostenibilità delle finanze pubbliche, dall’altro menziona esplicitamente il bisogno di investimenti e fa menzione di “ulteriori sviluppi” che contribuiscano a questi obiettivi. Se a questo si aggiunge che, poco oltre, l’accordo apre a possibili modifiche dei trattati nell’incorporare i risultati della conferenza sul futuro dell’Europa, si può concludere che la partita è aperta.

I bisogni di investimento

La mancanza di impegni precisi su regole e capacità di spesa a livello europeo, insieme al fatto che i Liberali non siano stati in grado di mettere nero su bianco nessuno dei veti che avevano espresso durante la campagna elettorale, potrebbe giocare a favore dell’anima riformista della coalizione.

Infatti, per tenere insieme la “trinità impossibile”, il bisogno di investimenti pubblici, l’impegno a non aumentare le tasse (un altro punto su cui insistevano i Liberali) e la fedeltà a disciplina di bilancio e riduzione del debito, l’accordo si cimenta in un complesso ma anche azzardato gioco di equilibrismo.

La coalizione si è infatti impegnata in primo luogo ad indebitarsi massicciamente l’anno prossimo, quando il patto di stabilità sarà ancora sospeso, per poi finanziare gli investimenti negli anni successivi; e poi, a usare agenzie fuori dal bilancio dello stato per finanziare gli investimenti futuri senza aumentare disavanzo e debito pubblici; oltre alla naturale domanda di cosa avrebbero detto i custodi del rigore tedeschi se tale strategia fosse stata annunciata da un paese del sud, occorre notare che è alquanto improbabile che la Commissione faccia passare un trucco così smaccato.

Ci si troverebbe a quel punto a dover finanziare un vasto programma di investimenti senza aumentare le tasse, due punti su cui l’accordo di coalizione non ammette deroghe e ambiguità, in un quadro vago e poco vincolante per quel che riguarda il quadro normativo su debito e deficit. A quel punto i rossi e i verdi della coalizione semaforo potrebbero trovare la forza di imporre una riforma radicale delle regole (sia interne sia europee) che i gialli sono oggi riusciti a non fare inserire nell’accordo di coalizione. Si aprirebbe così uno spazio politico per una regola d’oro europea che scorpori l’investimento pubblico dai parametri del patto di stabilità; una regola che incontra il favore di molti paesi europei e della Commissione

Una vittoria ai punti

Il delicato equilibrio sui temi controversi come la disciplina di bilancio e il debito, insieme all’impegno di sostenere gli obiettivi dell’Unione europea in molti campi tra cui quello dei diritti sociali (è significativo l’appoggio alla direttiva sul salario minimo, insieme alla proposta di aumentarlo in Germania fino a 12 euro) ci consegna un accordo di coalizione ben migliore di quanto non si potesse sperare.

Certo, i non detti porteranno a molti conflitti la cui risoluzione finirà per dipendere dal carisma e dalla capacità di leadership di Olaf Scholz, nonché dall’evoluzione del dibattito a livello europeo. E certo, il posto di ministro delle finanze ottenuto dal leader dei liberali Christian Lindner rischia di riportare l’Eurogruppo ai tempi bui di Wolfgang Schäuble.

Tuttavia, Socialdemocratici e Verdi sono riusciti a far entrare nell’accordo molta parte della loro agenda, evitando i veti di un partito liberale la cui capacità di incidere si è rivelata meno importante della visibilità mediatica degli scorsi mesi. Il campionato insomma è tutto da giocare, ma questo incontro è stato vinto ai punti da chi milita per una Germania che sia motore di riforme strutturali e non cosmetiche delle regole del gioco europeo.

© Riproduzione riservata