La base strutturale del paio di trilioni (migliaia di miliardi) che passano in gran parte dalle casse di Microsoft, Google, Amazon, Apple, Facebook, è materiale e immateriale, come il corpo e l’anima dell’uomo d’una volta. Il corpo è un groviglio di cavi ed apparati che distribuiscono e trattano i segnali. L’anima è costituita dalle “Applicazioni Native” – Ricerca, Acquisto e Social – che riciclano i messaggi degli utenti.

Miliardi che equivalgono a trilioni

A fronte dei bilanci delle Big Tech, paiono poca cosa, anche se da europei non cessiamo di invidiarli, le centinaia di miliardi del blocco di mestieri e d’interessi hollywoodiano che ruota attorno alle Major dello spasso: Disney, Warner, Paramount, solo per citarne. Sono, per così dire, gli Alfa nel campo dei Content Producer che realizzano Narrazione, Intrattenimento e Informazione fondendoli in strutture di prodotto come Film, Fiction, Documentari, Reportage e Videogiochi capaci di placare gli appetiti dei cuori e delle menti.

Lungi dal soffrire per i mega bilanci di uno Zuckerberg qualsiasi – che ogni mattina interroga lo specchio per chiedergli se è nata una start up pronta a rimpiazzarlo – l’industria creativa vive irrequieta, ma sicura del controllo su quello che ha prodotto, e che produce.

Perché l’intrattenimento e le favole non sono righe duplicabili di software, chiacchere vaganti o “notizie” sgocciolanti dalla Rete, ma oggetti definiti e protetti da caterve di diritti. Puoi scipparne un’idea, una trama, il carattere di qualche personaggio, ma dovendo comunque produrre prima o poi con rischi non diversi dal produttore originale.

Ecco perché Google e i social, noti pirati e parassiti dei giornali, hanno lasciato al crimine sommerso lo streaming abusivo di film e cose simili.

Nel contempo i prodotti della Industria creativa sono anche oltremodo immateriali e quindi adattissimi a circolare sulla Rete, tant’è che nei social s’affollano promozioni, trailer e commenti, mentre le piattaforme tipo Netflix consegnano la visione digitale. Che s’è semplicemente aggiunta a quella nata prima con i cinema, la televisione, il noleggio di supporti.

Così i Content Producer usano la Rete in abbondanza, ma standone al di fuori come l’isola britannica rispetto al continente. Ebbene, è proprio questo campo distinto e separato che risulterebbe decisivo negli equilibri di business e di potere della Rete, una volta che scattasse l’effetto VHS. 

L’effetto VHS

VHS era, per chi non la ricorda la cassetta che negli anni Ottanta s’è accompagnata agli appositi videoriproduttori della JVC (azienda giapponese) e che VHS divenne d’uso dominante grazie ad accordi d’esclusiva con alcune case di film americane.

Così si sbarazzò dello standard rivale Betamax di Sony, tecnicamente assai migliore, ma disarmato sul piano del prodotto. Non per nulla Sony nel 1989 s’è risolta a comprare la Columbia, grande major hollywoodiana (Tootsie, Karate Kid, Ghostbusters) con una manina nel campo del game show (Ruota della fortuna) come una via obbligata per sventare altri effetti VHS a proprie spese, e cioè che fra due merci simili prevalga l’avversaria perché forte di una montagna di film, e giochi in esclusiva.

L’effetto VHS potrebbe scattare con maggior forza ancora nel campo delle applicazioni social, che già oggi si imitano l’un l’altra, tanto più se la Ue prescrivesse facoltà a favore degli utenti di scambiare messaggi fra diverse piattaforme come già avvenne coi telefoni. In questo caso, l’unica esclusiva quale altra mai sarebbe, se non la forza di un catalogo?

Ecco allora che i prezzi dei contenuti andrebbero alle stelle e che i produttori potrebbero perfino scegliersi, come padrone di comodo, uno dei giganti in cerca di prodotto.

Nessuno dubita, per esempio, che i veri “padroni” del gruppo ATT (dal nome della gigantesca compagnia telefonica che ha tempo fa comprato Warner Bros) siano l’acquistato e non certo l’acquirente. 

Le mosse, finora, dei Big Tech

L’ombra dell’effetto VHS si intravede per ora nella mossa di Facebook verso il metaverso e nella nascita di Apple TV. Facebook ha lanciato il “Metaverso” come se fosse lo sbarco a mezzo Avatar su Gaia, e si è perfino ribattezzata Meta per svincolarsi dal tossico retaggio dei suoi social.

Al di là dei fuochi d’artificio degli entusiasti del baraccone tecnologico, si appresta ben che vada a gestire un parco di video giochi immersivi e tridimensionali, alla semplice condizione d’indossare un casco ad occhialone e un’epidermide sensibile per immersioni assai particolari.

Con questa mossa, e per la prima volta, si va al di là del riciclaggio della autoproduzione degli utenti (orgoglio nativo della Rete) e si immettono prodotti industriali come, immaginiamo, in un catalogo di versioni immersive di video giochi a molte mani, pagati in stile Spotify (dando tempo alla pubblicità o pagando per scamparla).

Molti dei videogiochi più diffusi per dinamiche e scenografie già stanno sul confine della terza dimensione e del campo visivo a base d’occhialone. In più ci sembra che perfino gli sparatutto competitivi in Rete poggino su format capaci di declinarsi su pubblici più generalisti ed eterogenei di quello attuale, composto in larga prevalenza da adolescenti e giovanetti, così da assicurare alla casa madre un gregge fedele da sfruttare.

Non solo facendo giocare e cavandone dei dati, ma magari spacciandogli qualche tipo di MetaCoin con cui procurarsi, armi, automobili, palazzi, tutti molto metaversici, ma buoni per fare un figurone davanti alla società dei giocatori.

Apple dal suo canto s’è buttata per ora a creare Apple tv, cioè una piattaforma on demand, nonostante che quel campo business, nato con Netflix, sia ora invaso dall’arrivo delle piattaforme autonome di Disney e analoghi giganti del prodotto.

In più Apple s’è buttata a produrre CODA, un rifacimento, malfatto a dire il vero, di La famiglia Bélier, l’originale francese di successo. Che, piaccia o meno, ha subito guadagnato un Oscar d’incoraggiamento da parte dell’astuta Hollywood che pregusta i miliardi che la Mela può investire.

Per cui, delle due l’una: o i manager di Apple, ormai sazi di miliardi, volevano giuggiolarsi sopra il palco fra i VIP dello showbusiness, nel quale a malapena san distinguere; oppure mirano, sventolando banconote ad aggirarsi in quel club per interporsi ai tentativi d’esclusiva d’altri fabbricanti d’apparecchi (Microsoft? Huawey?) vogliosi di dotarli dall’app di narrazione e, se le voci trovassero conferma, anche di un varco a un Apple, platinato metaverso.

C’è né abbastanza per non escludere l’avvio, più o meno a breve, di un’asta senza precedenti per dimensioni e conseguenze in cui le Big Tech mettono i trilioni e le Compagnie hollywoodiane, come al solito, si scelgono il padrone. Mentre l’Europa potrà contare sui suoi soliti campioni. Di pazienza.

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