Ma Monsieur Thierry Frémaux le guarda le serie? Thierry Frémaux è gloriosamente, da ventun anni, il Délégué Général del Festival di Cannes, quello che per abitudine, conformismo e disciplina retorica viene ancora considerato il più grande festival mondiale della settima arte. È un festival che frequento da trentatré anni, più o meno da quanto frequento la Biennale Cinema di Venezia.

Come tanti freschi reduci dall’edizione numero 75, ho riflettuto a consuntivo sugli schermi cannesi mentre rivisitavo a titolo di conforto certi classici seriali su piattaforma, originali o spin-off delle matrici. Parliamo di roba vecchia: le cinque stagioni di Breaking Bad sono datate 2008-2013, Better Call Saul ha esteso le sue propaggini dal remoto 2015 fino ai giorni nostri, Taboo è una produzione Bbc del 2017 tornata su Netflix da poco e in attesa di sequel.

Non sono un professorino di cinema, parlo da ordinario consumatore di audiovisivo: perché all’indomani di Cannes cerco conforto in ‘quei’ classici? La risposta è banale: perché, piaccia o non piaccia, il nostro palato di spettatori ha subito, negli ultimi anni, scossoni epocali.

Nel bene o nel male, non giudico: ma se hai assaggiato l’estetica di Breaking Bad, sapientemente prolungata da Better Call Saul, non ti rassegni a vedere in concorso sulla Croisette film come Stars at Noon di Claire Denis, o Frère et Soeur di Arnaud Desplechin, o EO di Jerzy Skolimowski, magari circonfusi di gloria nel Palmarès.

In sala

Sto avventurandomi su un terreno da pubblica crocifissione per la cinefilia paludata, vi avverto. C’è un cinema d’autore che può scivolare nel dilettantismo, per qualità, se non tiene conto del terremoto che le piattaforme hanno provocato nei gusti del pubblico, anche di quello esigente, che comunque svetta nel consumo seriale. Ho grande rispetto per M. Frémaux, che sventola la bandiera del cinema in sala ostracizzando i titoli Netflix e Amazon nel concorso ufficiale, perché in sala ci vanno per modo di dire, per un pugno di giorni.

È assiso in trincea come il suo Zelensky, il presidente ucraino che ha invitato a presiedere, di fatto, la Cerimonia del “via” di Cannes 2022. È solo il buon senso a suggerire un interrogativo: per riportare e tenere il pubblico in sala non servono prima di tutto bei film? Quanto fruttano, in pratica, le battaglie di retroguardia? Puoi difendere la grandeur puntando sui sottoprodotti delle Grandi (solite) Firme?

I nuovi classici

Breaking Bad e i suoi derivati hanno rivoluzionato la domanda estetica di centinaia di milioni di spettatori, senza confini geografici: su questo c’è poco da discutere. Piaccia o non piaccia, ci sono nuovi classici da cui ripartire. Ci sono stilemi codificati che hanno fatto delle arsure del New Mexico orizzonti universali.

Non è la concorrenza chiassona dei supereroi Marvel, l’unica ancora capace di riempire le sale. Questa, più temibile ancora, è la concorrenza della qualità tout court. Come True Detective prima stagione, sempre guardando al passato, quella di Nic Pizzolatto e Cary Joji Fukunaga: c’è un prima e c’è un dopo, ma non per la serialità, per il cinema tutto.

Arrivo in coda a Taboo perché passa per la cenerentola del gruppo selvaggio. Ma a torto. Il nome di Ridley Scott, produttore esecutivo, non fa più tremare le vene dei polsi, lo so. Gli anni passano, e il suo ultimo The Last Duel non è esattamente come Blade Runner. Ma Steven Knight, che è la mente dietro Taboo e Peaky Blinders – altro titolo prediletto dai consumatori di serie – sta adesso lavorando con Tom Hardy a un adattamento dickensiano di Grandi Speranze per la Bbc.

E guarda caso Taboo è il feuilleton che Charles Dickens scriverebbe oggi, se fosse vivo e se lavorasse per la tv. La melma, i bordelli e gli avvoltoi di cadaveri sono quelli del suo Tamigi, Our Mutual Friend, Il Nostro Comune Amico, il suo romanzo più dark. Non è solo l’epoca storica a coincidere, è lo sguardo. Ed è il condimento speziato, tipico del feuilleton. Senza le spezie forti, non palpiti per la prossima puntata, e non compri il giornale. È il feuilleton il vero progenitore della serialità. Le strategie di Netflix sono top secret per noi comuni mortali, ma c’è senza dubbio una ragione commerciale se si è rimessa in circolazione una miniserie vecchia di cinque anni.

Tom Hardy deve a Steven Knight regista quella che è forse la sua più folgorante interpretazione per il grande schermo, Locke, one man show al volante di un’auto dove tagliava i ponti con ogni voce della vecchia vita e ne avviava, forse, una nuova. Era un gran film - poco visto - di Venezia 2013.

Il suo James Delaney di Taboo è molto più estremo. È affamato di vendetta come il Conte di Montecristo, ma è una creatura allucinata. È tribale, tatuato, sfregiato da cicatrici visibili e non che fondono un incesto inguaribile, un oscuro passato africano, una madre nativa americana che ha cercato di ucciderlo ed è morta sul lettino di contenzione di un manicomio. È un dannato, e per la Londra ottocentesca qualcosa di peggio: un nigger, un mezzosangue forgiato dalla stregoneria. È pauroso e gelido. Per Tom Hardy questo antieroe è un affare di famiglia, e questo spiega molto della sua dedizione: l’idea originale è di suo padre, lo scrittore e sceneggiatore Chips Hardy.

Taboo appartiene di diritto alla famiglia dei nuovi classici, degli imprescindibili, perché ha odori e sapori forti. Puzza di fango e miseria e colera. C’è un “negro” - secondo l’uomo che ha sposato la sua sorella incestuosa, secondo la Compagnia delle Indie Orientali, vero male oscuro del sistema britannico - che arriva dal cuore di tenebra, e può strappare a morsi il cuore dei suoi nemici, non metaforicamente.

È pulp fiction

«Sono andato a letto presto», diceva il De Niro di Sergio Leone a saldo del suo misterioso passato. James Delaney è più sintetico: «Sono stato nel mondo». È la spezia allettante del feuilleton, ad alto tasso di morbosità. È pulp fiction, nel senso proprio dell’espressione. Orge queer, incubi, scontri di classe frontali. Ed è il sepolcro del buonismo, che guasta più o meno il novantanove per cento di quello che oggi si produce.

«Qual è la cosa più piccola che hai visto?», chiede a Delaney il suo futuro compagno d’armi, indigeno dei lupanari del Tamigi che colleziona stranezze esotiche. «La gentilezza umana», è la risposta. È un cult perfino il tetro spolverino nero, da far invidia a quelli di Matrix. Il buio è rotto solo dalle candele, da scuola Kubrick, così rivoluzionaria ai tempi di Barry Lyndon. Gli Stati Uniti del film già pilotano il business mondiale, anche se contano solo 15 Stati. E la Compagnia delle Indie, squalo che tiene in pugno anche la Corte, ha nell’armadio gli scheletri delle navi negriere affondate con centinaia di schiavi per cancellare la tratta illegale. Perché dietro l’esercito dei dannati c’è anche un messaggio di – anarchica - giustizia sociale.

Oona Chaplin, nipote di Charlie: è lei la sorella trasgressivamente amata. E poi Jonathan Pryce, Jessie Buckley, Stephen Graham, David Hayman, la tedesca Franka Potente: è un cast da cinema d’autore, che parla alla nostra memoria più dei registi (Kristoffer Nyholm e Anders Engstrom). Arriverà il sequel. Ma è con questo immaginario, partorito dal piccolo schermo ma proprio per questo tanto più decisivo nel plasmare i palati di questo terzo millennio globalizzato, che il cinema del futuro non può evitare di misurarsi.

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