Ho voluto contribuire al dibattito avviato dalla lettera aperta di Nadia Urbinati e Carlo Trigilia ricordando, a commento della risposta di Gianni Cuperlo, la necessità che la visione alternativa che ora si cerca sia credibile e realistica. Non è un pensiero granché originale, ma pareva utile per introdurre il merito.

La questione, direi, è quale visione opporre ai demagoghi reazionari, moderati o «populisti» che hanno rinunciato al tentativo di invertire il declino economico e civile dell’Italia, e da decenni si contendono la prerogativa di gestirlo a vantaggio di diversi interessi particolaristici. La visione che suggerirei ai progressisti combina la libertà repubblicana e l’innovazione Schumpeteriana.

Da un paio di secoli, la concezione dominante della libertà è quella liberale: non subire interferenze nelle proprie scelte («sono libera se nessuno mi forza a fare ciò che non voglio, o impedisce di fare ciò che voglio»).

Corrente per un paio di millenni, sino al trionfo di quella liberale, la concezione repubblicana è diversa: non essere dominati, essere padroni di sé stessi («se in un ambito della mia vita sono soggetta al potere incontrollato di altri, in quell’ambito non sono libera»). Tra i tanti, questa idea si trova in Livio, Tacito, Machiavelli, Locke, Montesquieu, Marx (che dissentiva dai repubblicani non sull’ideale da perseguire, ma su come realizzarlo).

Una prima differenza è che mentre la concezione liberale ignora le asimmetrie di potere, quella repubblicana le teme. Lo dimostra l’esempio del lavoro precario. Si immagini una lavoratrice il cui reddito dipende dalla scelta del datore di lavoro sul rinnovo del suo contratto; e si immagini che, per ingraziarsi il datore di lavoro, lei spesso rinunci spontaneamente a propri diritti, per esempio sull’orario o i carichi di lavoro.

Un liberale coerente dirà che qui non c’è un problema di libertà, perché quella lavoratrice ha liberamente accettato quel contratto e le sue rinunce non erano imposte o chieste dal datore di lavoro.

Un repubblicano dirà invece che quella lavoratrice non è libera, in questo ambito della sua vita, perché la discrezionalità rimessa al datore di lavoro, sulla quale lei non ha controllo, crea un’asimmetria di potere tale da assoggettarla alla sua volontà. Lei non è padrona di sé stessa sul luogo di lavoro, perché ha, letteralmente, un padrone.

La libertà repubblicana promette a tutti una sfera di autodeterminazione che li protegga da simili asimmetrie di potere: una sfera definita dai diritti fondamentali dei cittadini, e irrobustita da sufficienti risorse pubbliche – sanità, istruzione, informazione, protezione sociale – da permettere a tutti di esercitare quei diritti secondo la propria volontà, a differenza di quella lavoratrice. In questa visione, pertanto, un significativo grado di uguaglianza sostanziale – tale da escludere simili eccessive asimmetrie di potere – si rivela essere insito nella stessa idea di libertà.

È questa, del resto, un’interpretazione plausibile del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, che assegna allo Stato anche il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto» la libertà dei cittadini.

Una seconda differenza è che, se libertà è assenza di interferenze, ogni legge che ci vincoli limita la nostra libertà. Il principale teorico contemporaneo della libertà liberale, Isaiah Berlin, fu chiarissimo su questo: citando Jeremy Bentham, scrisse che «ogni legge è una violazione della libertà».

Anche i critici liberali del neoliberalismo spesso dicono che nei decenni passati l’avversione per l’intervento pubblico nell’economia divenne una sorta di religione, un credo irrazionale: concordo, ma quel credo è il figlio legittimo della nozione liberale della libertà. Per i repubblicani, al contrario, la libertà individuale è una creazione politica: perché solo le leggi e l’azione pubblica possono contrastare le asimmetrie di potere che altrimenti la comprimerebbero.

Una terza differenza riguarda appunto i rapporti politici. Se per i liberali ciò che solo conta è il puro fatto dell’interferenza delle nostre scelte, è indifferente che la legge sia imposta da un regime democratico o da un autocrate. Anche su questo Berlin fu chiarissimo: la per i liberali la libertà è un valore distinto dalla democrazia, ed è compatibile con l’autocrazia (Berlin fa l’esempio del «despota liberale», che interferisce nella vita dei cittadini meno di una democrazia interventista).

La libertà repubblicana richiede la democrazia, invece, e ha implicazioni esigenti per la sua architettura istituzionale: vuole che i cittadini abbiano eguale ed effettivo controllo sui governanti. Perché altrimenti i cittadini sarebbero soggetti a leggi che non riflettono – in nessuna plausibile definizione – la loro volontà: sarebbero dominati dal un potere politico che non controllano adeguatamente.

Se quindi i repubblicani immaginano uno Stato più interventista che i liberali, essi lo assoggetterebbero a controlli democratici più stringenti. Qui il problema principale è l’asimmetria di potere tra le élite economiche, il cui denaro può influenzare le autorità pubbliche, e i cittadini comuni.

Per chiudere: i repubblicani affermano non meno convintamente dei liberali i valori che questa tradizione trasse dall’Illuminismo (pluralismo, universalismo, supremazia della legge, governo limitato, costituzionalismo, tolleranza). Ma offrono un’idea di libertà più elevata, esigente, ed egualitaria. E questo, vista la centralità di quel valore, cambia tutto.

Passo alla sinergia tra questo ideale e la (migliore) teoria della crescita economica di lungo periodo, quella Schumpeteriana (ne parlo in un libro che uscirà a breve). In una parola, secondo questa teoria la crescita dipende dal progresso tecnico, dall’innovazione; e procede per «distruzione creatrice», man mano che nuove innovazioni soppiantano le precedenti.

In questa prospettiva, l’ostacolo principale alla crescita è di nuovo il potere delle élite economiche: perché esse hanno interesse a sopprimere o fagocitare le nuove innovazioni che minacciano di soppiantare i loro prodotti e le loro imprese, e spesso hanno sufficiente influenza politica per orientare le politiche pubbliche a difesa dei loro interessi.

Tipicamente, quindi, una società che progredisce verso l’ideale repubblicano della libertà sarà anche più prospera ed egualitaria. Sia perché dentro quella sfera di autodeterminazione un numero crescente di cittadini avrà maggiori opportunità di scoprire e coltivare i propri talenti, dai quali l’innovazione infine dipende; sia perché il crescente controllo esercitato dai cittadini sui governanti ridurrà la capacità delle élite di usare i poteri pubblici in difesa dei loro interessi. La doppia sinergia – tra autodeterminazione e innovazione, tra distruzione creatrice e democrazia vigorosa – è manifesta.

Se ne può ricavare un programma coerente di riforme politiche, economiche e sociali. I capitoli più ovvii sono la legge elettorale e il finanziamento dei partiti, le politiche di concorrenza e la tassazione dei redditi e della ricchezza, l’istruzione universale e la disciplina del mercato del lavoro.

Esiste qualche tensione tra libertà e innovazione, ma preferisco chiudere sul realismo della visione repubblicano-Schumpeteriana. Essa non implica una rivoluzione, ma è compatibile con qualsivoglia misura di gradualismo che il dibattito tra radicali e moderati fisserà.

Ed essa ha spiccati vantaggi retorici, normativi e pragmatici sui concorrenti: l’ideale repubblicano le permette di strappare a liberali e conservatori la bandiera della libertà; e la teoria Schumpeteriana le offre, nelle parole di Karl Polanyi, «il vantaggio, decisivo in politica, di rappresentare ciò che è possibile».

Pare quindi utile includere anche questa visione nel dialogo tra politica e cultura, a fianco delle scuole di pensiero che hanno guidato i progressisti nei decenni scorsi – con esiti che non credo sia controverso definire deludenti.

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