Dopo anni di guerra Ankara si riavvicina a Damasco? L’argomento della pace con la Siria sta assumendo un peso importante ai vari livelli dello stato turco. Un certo numero di diplomatici e ufficiali in pensione consigliano da tempo la riconciliazione con Bashar al-Assad.

Dal canto loro i neo nazionalisti sostengono che per portare avanti efficacemente la lotta contro i curdi occorre un accordo con Damasco. Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha recentemente auspicato la necessità di avviare colloqui tra l’opposizione siriana filo-turca e il governo siriano. È stato applaudito dal partner di governo, Devlet Bahceli, il leader del partito di estrema destra Mhp.

Bahceli ha chiesto che il governo “normalizzi” le sue relazioni con tutti i vicini prima delle elezioni del 2023, con un’evidente preoccupazione in vista del voto che vede la maggioranza in difficoltà: anche in Turchia la politica estera conta poco al momento delle urne e la scelta dei cittadini è principalmente guidata dalla situazione economica interna.

I rifugiati

Ciò che si sa è che Vladimir Putin ha tentato più volte di convincere il presidente Erdogan a parlare con Assad, senza successo salvo iniziali contatti tra servizi segreti. La questione siriana è al centro delle preoccupazioni del deep state turco: la politica di Erdogan è considerata un successo ma sono in molti a non vedere sbocchi futuri, soprattutto ora che la guerra in Ucraina ha creato un fossato tra Russia e occidente. Non si tratta di una questione semplice.

Per Ankara la riconciliazione con Damasco può avvenire solo sulla base di una cooperazione politico-militare che annulli l'autogoverno de facto dei curdi nel nord della Siria. Ma qui c’è l’ostacolo americano: gli Usa sostengono le forze democratiche siriane (Sdf), assieme alle unità di protezione del popolo (Ypg) che i turchi considerano il braccio operativo del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), con il quale Ankara è in guerra dal 1984 e che è stato messo nella lista delle entità terroriste.

In secondo luogo la Turchia vorrebbe facilitare il ritorno di oltre 3,7 milioni di rifugiati siriani, ormai divenuti un peso per la politica interna visto che i cittadini turchi non condividono la linea dell’integrazione. In Turchia si moltiplicano gli atti di razzismo contro i rifugiati siriani e tale insofferenza favorisce le opposizioni, di cui uno degli slogan più popolari in questo momento è “mandiamo a casa i siriani”.

Non è sicuro – tutt’altro – che Damasco sia favorevole alla politica di rientro: si tratta pur sempre di sunniti che il regime alawita di Assad considera nemici e traditori della patria. Per questo da maggio Erdogan minaccia di lanciare un’operazione militare che allarghi la zona sotto controllo turco lungo il confine: per liberarla dal Ypg ma anche per reinsediarvi i profughi siriani.

Il tema dei jihadisti

Infine c’è il tema delle organizzazioni jihadiste o ribelli siriane sotto protezione di Ankara nell’enclave di Idlib: sarebbe necessaria una complessa trattativa politica per permettere a tali elementi di reintegrarsi nel regime siriano attuale. Ankara dovrà sacrificarli? È evidente che per assicurarsi un’apertura su Damasco, la Turchia dovrebbe rinunciare ai gruppi armati in Siria ma la cosa potrebbe rivelarsi alquanto difficile. Le varie fazioni ribelli e post jihadiste sono assai agguerrite e hanno i propri alleati all’interno del sistema politico turco. Inoltre la Turchia le sta utilizzando in vari teatri (come la Libia) e contro gli stessi curdi. Malgrado tali difficoltà Erdogan potrebbe essere costretto a dare ascolto alle richieste di una revisione politica se vuole sopravvivere politicamente.

Come tutti i politici Erdogan è obbligato a guardare al presente immediato: le turbolenze economiche lo stanno mettendo in seria difficoltà come si vede dai sondaggi, a causa della stretta valutaria e dell’inflazione galoppante. Per resistere la Turchia ha estremo bisogno dei flussi finanziari della Russia e quest’ultima spinge al cambio di passo in Siria. Sul terreno si continua a usare la forza e le forze armate di Assad continuano a proteggere il Rojava curdo, subendo perdite da parte di attacchi turchi. Tuttavia i curdi sono attualmente difesi sia dagli occidentali che da Damasco e dagli iraniani: tale contraddizione non può reggere a lungo.

Immobilismo occidentale

In tale quadro di estrema volatilità delle alleanze, colpisce l’assoluto immobilismo occidentale, la mancanza di influenza e l’assenza di ogni manovra politica da parte americana. Tutto porta a considerare l’attuale status quo molto fragile.

L’occupazione della Siria nord-occidentale costa ad Ankara circa due miliardi di dollari all’anno, secondo il Financial Times. Il governo turco afferma di aver speso almeno 40 miliardi di dollari per i siriani in Turchia ma l’opposizione afferma che la cifra reale è cinque volte tale importo. Il costo sociale della loro presenza nel paese diviene sempre più problematico per Erdogan. Se si associa questo ai timori di veder emergere uno stato curdo de facto sostenuto dall’occidente ai suoi confini, gli analisti pensano che la Turchia non abbia scelta: in accordo con Assad o senza, l’unica certezza è che farà di tutto per evitare una simile eventualità.

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