Le città siriane distrutte durante la guerra e mai ricostruite sono diventate fonte di guadagno per il regime di Damasco. Da alcune settimane, al Hajar al Aswad, sobborgo della capitale, si è trasformato nel set del film Home operation, che annovera tra i suoi produttori esecutivi un volto noto del mondo del cinema: quello di Jackie Chan.

Come si vede dai video promozionali diffusi sui social, tre le macerie di al Hajar al Aswad e i resti di carri armati andati distrutti durante la guerra si aggirano attori con indosso divise militari e fucili a tracolla, mentre il produttore dirige i lavori di ripresa all’ombra di un palazzo in rovina. Incurante degli effetti che questi filmati potrebbero avere su coloro che sono stati costretti ad abbandonare il sobborgo a causa della guerra e che in quella città hanno perso non solo i loro averi, ma anche i loro cari.

La scelta della casa di produzione cinese-emiratina SYX Pictures di girare alcune scene del film in Siria è stata infatti fortemente criticata dai cittadini, la cui rabbia si è diretta anche contro il presidente Bashar al Assad, ma la presenza di una troupe cinese in Siria dice molto sulle relazioni che Pechino e Abu Dhabi intrattengono con il regime di Damasco. E su cosa aspettarsi dal futuro.

Una Siria in macerie

Dopo undici anni di guerra, la ricostruzione della Siria è ancora ferma al punto di partenza, mentre la povertà continua a dilagare a causa della crisi economica e della svalutazione della lira, che nel 2021 ha perso l’80 percento del suo valore a seguito delle sanzioni americane, della crisi finanziaria del Libano e della pandemia da Covid-19.

Più del 60 per cento delle infrastrutture è andata distrutta, con interi quartieri e città rasi al suolo a seguito dei combattimenti tra i diversi schieramenti susseguitisi dal 2011 a oggi. Tra le zone della Siria tuttora in macerie rientra anche il sobborgo di al Hajar al Aswad.

Agli inizi della guerra la città, che sorge a soli 4 chilometri da Damasco, era finita nelle mani dell’Esercito libero siriano, ma nel 2015 lo Stato islamico era riuscito a prenderne il controllo e a trasformarla in una delle sue roccaforti a pochi passi dalla capitale. Tre anni dopo, nel 2018, al Hajar al Aswad è ritornata sotto il controllo del presidente Assad, ma i bombardamenti dell’esercito governativo hanno inflitto gravi danni alle infrastrutture, rendendo la città pressoché inabitabile.

A beneficiare di questa distruzione sono adesso le compagnie cinematografiche di Russia, Iran e Cina, che hanno trovato nella Siria governativa un set in cui girare i propri film a costi ridotti. O con minori problemi di sicurezza, come nel caso di Home operation. Le scene registrate ad al Hajar al Aswad dovevano inizialmente essere girate in Yemen, paese in cui è ambientata la storia, ma data la situazione sul terreno, la produzione ha preferito optare per la Siria.

Il film è stato ideato per celebrare la missione di salvataggio portata a termine nel 2015 dalla marina cinese, che è riuscita a evacuare dallo Yemen, già in guerra, cinquecento cittadini cinesi e altri duecento di diverse nazionalità grazie anche all’aiuto fornito dagli Emirati.

Cina e Damasco

Ma al di là del valore propagandistico della pellicola, il consenso dato da Assad alle riprese è indicativo dello stato dei rapporti tra Pechino e Damasco. La Cina non ha mai rotto le relazioni diplomatiche con la Siria governativa e ha partecipato fin dall’inizio ai negoziati portati avanti in sede Onu per una soluzione pacifica del conflitto. Pechino si è sempre opposta all’opzione militare e alla divisione del paese con il fine ultimo di tutelare i propri interessi in una regione che ricade nel progetto della Nuova via della seta.

Il governo cinese ha quindi preso le parti di Assad e sostenuto la Russia, alleata del presidente siriano, nella sua opposizione alle risoluzioni dell’Onu di condanna nei confronti del regime, aiutando Mosca a ottenere anche la chiusura di diversi corridoi umanitari diretti verso le aree della Siria fuori dal controllo del governo centrale.

In cambio la Cina si è aggiudicata un ruolo nella ricostruzione del paese. Almeno sulla carta. Negli anni sono state siglate diverse intese tra Pechino e Damasco, con il benestare della Russia, per il ripristino delle infrastrutture telefoniche e ferroviarie, ma il perdurare dell’instabilità politica ha costretto i cinesi a rimandare l’avvio dei lavori. A oggi, il maggior contributo della Cina resta quindi quello umanitario, data la grande quantità di aiuti forniti a titolo gratuito alla popolazione siriana.

Gli Emirati

Ma le riprese in Siria della casa di produzione sino-emiratina sono anche un segno della normalizzazione dei rapporti tra Damasco e Abu Dhabi. Gli Emirati hanno sempre mantenuto un rapporto ambiguo con il regime di Assad: ufficialmente hanno aderito alla posizione americana e hanno sostenuto l’allontanamento della Siria governativa dalla Lega araba, ma non hanno mai del tutto interrotto le relazioni con il regime.

Un’ambiguità che nel lungo periodo ha consentito agli Emirati di riallacciare anche ufficialmente i rapporti, contribuendo in questo modo alla legittimazione del presidente Assad sul piano internazionale. Gli EAU sono stati tra i primi a riaprire la propria ambasciata a Damasco nel 2019, mentre nel 2021 il ministro degli Esteri emiratino, Sheikh Abdallah bin Zayed al-Nahyan si è recato per la prima volta dopo dieci anni in Siria per incontrare il presidente. Ancora più significativo è stato l’incontro, tenutosi a marzo di quest’anno, tra il Assad e il vicepresidente Mohammed bin Rashid Al Maktoum ad Abu Dhabi, volto a rafforzare i legami tra i due paesi.

Il riavvicinamento degli Emirati però non è stato accolto positivamente dagli Stati Uniti. Per Washington, la normalizzazione dei rapporti portata avanti da Abu Dhabi legittima Assad e lo riavvicina alle altre petromonarchie del Golfo, con un possibile ritorno economico che farebbe comodo alle casse del governo. Soprattutto nel momento in cui la Russia è impegnata nella guerra in Ucraina.

In una Siria ancora alle prese con la guerra e divisa al suo interno, anche la scelta di girare un film nella periferia di Damasco è più di una semplice operazione culturale, e permette di delineare lo stato delle relazioni che il governo intrattiene con gli attori regionali e internazionali. E di capire chi punta alla ricostruzione (anche politica) del paese.

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