Sono passati dieci anni dalla crisi che ha innescato la stagione dei dissesti bancari, ma per Carige e Mps non si intravvede ancora una soluzione definitiva. Anche la recente offerta di acquisto di Bper per Carige, dopo quella di Unicredit per Mps, è stata rispedita al mittente perché giudicata inadeguata e con clausole troppo onerose dall’azionista di controllo, in quest’ultimo caso, lo Schema Volontario del Fondo Interbancario di garanzia dei depositi (Fidt), alias il sistema bancario.

Una decisione, come quella del Tesoro per Mps, dettata più che altro dal desiderio di non palesare il reale costo del “salvataggio” della banca, ma irrazionale perché Carige e Mps hanno una qualità degli attivi troppo bassa e una struttura dei costi troppo elevata per poter sperare di sopravvivere autonomamente.

La loro cessione è dunque inevitabile; rinviarla rischia solo di ridurre ulteriormente il valore delle due banche, aumentandone il costo del dissesto.

L’offerta di Bper per Carige ha la stessa struttura di quella di Unicredit per Mps. Per prima cosa si vuole che l’acquisizione, e la successiva fusione, non peggiori i requisiti patrimoniali e la struttura dei costi della banca acquirente, e per questo si chiede: la cessione di tutti i crediti deteriorati e una valutazione conservativa dell’intero attivo; la manleva per rischi legali e contingenze negative; la ristrutturazione per ridurre i costi operativi; e dopo che tutte le minusvalenze, costi di ristrutturazione e svalutazioni sono state fatte emergere, un aumento di capitale “preventivo” a carico dei vecchi azionisti per portare i ratio patrimoniali in linea con quelli più elevati dell’acquirente.

Ridurre i costi e aumentare il patrimonio non serve però a far crescere i ricavi, che possono venire soprattutto dal flusso delle commissioni visto che realisticamente non ci potrà essere un significativo contributo dal margine di interesse, ferma restando la politica monetaria della Bce.

Ma poiché Carige, come Mps, ha venduto le “fabbriche prodotto” per far cassa e migliorare i ratio patrimoniali, il compratore chiede che vengano disdettati i contratti di distribuzione in essere con terzi, facendosi carico delle penali previste, per poter distribuire i propri prodotti.

L’attività bancaria è ormai diventata prevalentemente distribuzione e un’acquisizione serve ad aumentare il numero dei risparmiatori e delle imprese clienti a cui vendere prodotti e servizi finanziari.

A queste condizioni Bper avrebbe acquistato la quota di Fitd in Carige al valore simbolico di 1 euro, per poi lanciare un’Opa in Borsa da 71 milioni per l’11,7 per cento sul mercato.

Inoltre, con la fusione la banca acquirente tipicamente ottiene il beneficio fiscale delle Dta (Deferred tax asset, le perdite pregresse della banca target che possono essere utilizzate per abbattere le imposte sugli utili futuri).

La legge di bilancio li ha limitati al minimo tra 500 milioni e il 2 per cento delle attività della banca acquisita, che nel caso di Carige sarebbero circa 400 milioni di cui Bper avrebbe potuto beneficiare. Senza contare il badwill (ovvero la differenza tra il minor prezzo pagato e il patrimonio netto) che può essere considerato dall’acquirente come profitto da capitalizzare, anche se ai soli fini contabili (non per la regolamentazione).

Se si guarda alle offerte di Bper e Unicredit con occhio disincantato si coglie un elemento curioso: oltre al valore economico dei vari benefici concessi all’acquirente, il venditore, lo Stato per Mps, o il Fidt per Carige, verserebbe nella banca come aumento di capitale “preventivo” più soldi di quanti ne incasserebbe dalla successiva vendita. In pratica, è il venditore che paga l’acquirente, anche se indirettamente; l’opposto di quanto avviene in ogni normale transazione. Il che equivale ad attribuire a Mps o Carige un valore negativo.

La dote peggiore

Con la tipica creatività italica questo prezzo negativo è stato ribattezzato “dote”, ma altro non è che il pagamento da parte del venditore affinché il compratore si accolli la banca.

In entrambi i casi l’aumento di capitale “preventivo” serve solo a mascherare questo pagamento a favore del compratore.

Si noti bene che nelle trattative per Mps, e nell’offerta per Carige, stando alle indiscrezioni di stampa, Stato e Fidt non avrebbero fatto obiezioni a una vendita con “dote”, asseverando il fatto che il valore effettivo delle due banche fosse negativo, ma a quanto ricca dovesse essere questa “dote”.

Quale sia la ratio di tale assurdità finanziaria è presto detto. Una società che ha un valore negativo, e nessuna reale prospettiva di rilancio, sarebbe da considerare, nei fatti, in dissesto, anche se giuridicamente o contabilmente non lo è: sono concetti diversi.

In tale frangente, per l’azionista di controllo sarebbe razionale ricorrere a una procedura fallimentare, come la risoluzione bancaria, limitando in questo modo le perdite alle sole quote azionarie detenute, potendo scaricando il costo del dissesto anche sugli azionisti di minoranza, il debito subordinato e junior. Il risultato finale sarebbe lo stesso, con la ristrutturazione dei costi e lo scorporo delle attività deteriorate e dubbie da quelle cedute tramite una “good bank”.

Ma Stato e Fidt (ovvero il sistema bancario) non seguono logiche razionali di mercato ma quella del consenso per cui sono disposti a pagare un prezzo molto più elevato pur di evitare che il dissesto si palesi all’opinione pubblica.

Anche se nessuno lo dice apertamente, Mps e Carige sono banche zombie: nello stato in cui sono non hanno reali possibilità di sopravvivenza; ma come tutti gli zombie possono camminare ancora a lungo anche se, più passa il tempo, minore sarà il loro valore.

Alla fine è possibile, anzi probabile, che saranno vendute a un prezzo negativo anche più alto di quello rifiutato oggi o, se preferite, con una “dote” più ricca. Più o meno come andrà a finire anche con Alitalia.

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